Ambiente, lavoro, comunità: l’impatto dell’ecommerce

Nero su bianco, per 101 pagine Amazon descrive il suo impegno per la sostenibilità. Un passaggio cruciale del Report annuale ha però attirato critiche: «Le emissioni di carbonio sono aumentate del 18% nel 2021; tuttavia, cosa importante, la nostra intensità di carbonio è diminuita dell’1,9% (per il terzo anno consecutivo ndr.)» è scritto nel documento sulla sostenibilità diffuso nel luglio scorso. Il problema però resta per Amazon come per le altri grandi piattaforme.

Nonostante gli sforzi e gli investimenti infatti, l’intensità di impronta di carbonio – grazie all’utilizzo di mezzi elettrici fonti rinnovabili ecc – diminuisce lentamente rispetto ai ritmi travolgenti dei volumi dell’ecommerce che, al di là dell’effetto Covid degli ultimi due anni, è destinato a crescere del 12% l’anno sino agli 8.300 miliardi di dollari nel 2025, secondo il Global Payment Report.

Il peso di azionisti e consumatori

La pressione a fare di più arriva ora anche dagli azionisti: all’ultima assemblea quasi la metà ha votato a favore dell’invito alla società ad affrontare il problema degli imballaggi in plastica. La questione, che vale per Amazon come per tutte le piattaforme da Alibaba a Zalando, è come rendere il business effettivamente sostenibile, ora che gli stakeholder (azionisti, clienti e fornitori) stanno diventando più sensibili al tema. Ma quanto impatto realmente l’ecommerce sull’ambiente, le comunità e il lavoro? Le risposte sono varie e le questioni controverse.

Quando il negozio è vicino, l’ecommerce non conviene

La Scuola superiore Sant’Anna ha appena condotto uno studio per quantificare l’impronta ambientale delle vendite nei negozi fisici e dell’ecommerce, secondo il Life Cycle Assessment (Lca) . I ricercatori hanno delineato sei scenari e per ciascuno hanno calcolato – ipotizzando l’acquisto di un singolo prodotto – l’impronta relativa allo stoccaggio, al packaging, ai consumi energetici (del negozio e della procedura digitale di acquisto), i flussi di trasporti (consegna a casa o tragitto per recarsi al negozio fisico) e il fine vita degli imballaggi. Sono stati inclusi anche i resi (con ipotesi al 10%) e le consegne fallite.

Ebbene, lo scenario peggiore dal punto di vista del climate change (C02 emessa) è il negozio fisico con spostamento di 15 chilometri in auto propria. Il secondo peggiore è l’ecommerce con intermediario che stocca il prodotto (il modello classico delle grandi piattaforme), opzione leggermente peggiore rispetto allo spostamento con auto proprio di 5 km totali.

Fonte: Il Sole 24 Ore