Cambiare sì, ma fino ad un certo punto. Anche in azienda

Occupandomi per mestiere di change management, oltre alle umane resistenze al cambiamento (siamo animali abitudinari), soprattutto in questo periodo di rivoluzioni sia grandi e profonde che piccole e quotidiane, nelle aziende le persone spesso mi palesano le difficoltà che loro stesse riconoscono legate ad una sorta di deficit di volontà di cambiare. I motivi che più spesso lo sostanziano sono tre: se modifico il mio modo di relazionarmi, allora perdo la mia spontaneità; adattarmi al mio interlocutore significa non essere più me stesso; infine, impratichirsi con le regole della comunicazione persuasiva è male, forse eredità di linguaggio del periodo in cui il consumerismo americano ci raccontava un persuasore per definizione “occulto”, facendoci confondere persuasione con manipolazione.

Provo a ragionare sulle tre questioni partendo dal fondo, dalla più generale: il rischio di confondere mezzi e fini. Sembrerà banale, ma sapere essere persuasivi ci mette senza dubbio nella condizione di approfittarne. Però ci conviene non dare la colpa allo strumento ma alle intenzioni, all’etica, alla finalità non trasparenti di chi lo usa. Mutuo un esempio storico da un collega: se persuado mio figlio a non drogarsi, anche se a lui piace tanto, sto facendo bene o male? In azienda: se sono l’unico che intravede un grave rischio, è un bene che io sappia essere persuasivo nei confronti di chi può adoperarsi per attenuarlo, capo o colleghi che siano?

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Più in generale, allora, se ho intenzioni malevole per assicurarmi un vantaggio a discapito di qualcuno (anche se la definizione non risolve: pensate al figlio drogato, che potrebbe ritenere la vostra intenzione malevola nei suoi confronti); se non ho capacità empatiche e strumenti etici (quindi non mi accorgo / non mi interesso del fatto che sto facendo male a qualcuno); infine, se ho finalità nascoste (dove il primo problema è che siano nascoste, ancor prima di ragionare sulle finalità) allora certamente conoscere gli strumenti della comunicazione persuasiva mi avvantaggia.

Trattasi però appunto di una questione legata ai fini e non ai mezzi.Con questa logica si svolge molto del mio lavoro quotidiano nelle organizzazioni: più condividiamo queste regole di funzionamento e più tutti ne traiamo giovamento, in termini di relazioni meno inficiate da incomprensioni, ambiguità, diffidenza, sfiducia, conflitti.

La seconda questione è più intima: come conciliamo il saperci adattare con il rimanere (coerenti con) noi stessi, senza snaturarci? C’è anche un po’ di retorica spicciola, che abbonda persino sulle timeline dei nostri social, del “sono come sono e me ne vanto”. L’antidoto è senz’altro un po’ di ironia (l’ultima che ho letto era nel filone “resta pure te stesso, ma se fai schifo pensa se cambiare”) ma anche dirci più seriamente che nella nostra socialità non possiamo essere solo noi stessi: per definizione siamo noi stessi e in relazione. Chiudersi nella prima parte significa non mettersi in relazione. Essere se stessi si manifesta anche nel come ci adoperiamo per favorire il miglior contesto relazionale possibile affinché l’incontro abbia modo di svilupparsi generativamente.

Fonte: Il Sole 24 Ore