Cesare Pavese, “un codardo” in fuga dalla storia

Cesare Pavese era un vigliacco. Il primo a rendersene conto fu lui stesso, e le note del suo diario abbondano di commenti in tal senso. Il sentimento di inadeguatezza virile, che nello scrittore piemontese possiede sempre una precisa connotazione sessuale, si fece però ancora più acuto nel dopoguerra. Molti di coloro che Pavese frequentava erano andati partigiani; qualcuno dei suoi amici più cari, Leone Ginzburg e Giaime Pintor, non era più tornato. Solo lui pareva non fosse stato all’altezza del momento. «Non hai combattuto. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?».

Un codardo e, moralmente, un traditore

Dei tanti modi in cui si può espiare una colpa, Pavese scelse il più indiretto. Condannato dal regime al confino, costretto a nascondersi per evitare potenziali ritorsioni dei tedeschi, con la tessera del Partito Comunista in tasca, a guerra finita aveva tutte le carte in regola per recitare la parte dell’eroe. Se ciò non avvenne fu solo perché lui stesso si impegnò a sabotare questa eventualità, facendo sapere a tutti, con interviste, comunicati-stampa e recensioni “interne” alla casa editrice, che il protagonista del romanzo della sua consacrazione letteraria – un codardo e, moralmente, un traditore – era l’autore stesso.

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Il Corrado de La casa in collina (il libro che, assieme a Il carcere, forma il dittico di Prima che il gallo canti) è infatti un uomo incapace di trasporto emotivo, che, quando la vita gli offre una seconda chance, facendogli rincontrare una ragazza con cui otto anni prima ha avuto una relazione, Cate, e scoprire che il di lei figlio, Dino, potrebbe essere il frutto dei loro amorazzi di allora, si sottrae: esattamente come evita di lasciarsi coinvolgere dagli amici di Cate, impegnati nella lotta contro i fascisti, per poi finire imboscato nella casa di campagna dei vecchi genitori, in una regressione all’infanzia su cui il libro si chiude mentre, attorno, l’Italia intera brucia. Una fuga dalla Storia simile a quella dello stesso Pavese.

L’invito a trattare La casa in collina come una sorta di confessione a cuore aperto ha segnato profondamente tutte le letture successive. Nel 1949 proprio la morale del disimpegno espressa da Corrado fece addirittura del romanzo un avvenimento della guerra fredda culturale. I critici «borghesi» come Emilio Cecchi e Giuseppe De Robertis, che non avevano poche colpe da farsi perdonare, dichiararono il proprio entusiasmo per le pagine conclusive, dove Corrado si confronta con lo scandalo supremo della violenza rievocando la scoperta casuale dei cadaveri di alcuni militi fascisti caduti in un’imboscata. Per quanto comunista, Pavese aveva dunque saputo comprendere le ragioni dei nemici: cosa di cui non erano capaci i narratori della Resistenza.

I critici marxisti

I critici marxisti riservarono invece alle lettere e alle conversazioni private le proprie perplessità. Di fronte ai rimproveri degli amici, Pavese fece allora ricorso a due strategie difensive assai diverse, ma non incompatibili tra loro. Con alcuni rivendicò semplicemente il diritto dello scrittore di mettere in scena la «tragedia» e di non tacere gli elementi meno conciliati di una guerra civile; ma con altri protestò che non andavano confuse le sue idee con quelle di un personaggio preoccupato solamente di costruirsi un «alibi» manipolando i propri lettori.

Fonte: Il Sole 24 Ore