Come affrontare le tempeste del futuro, accettando i propri limiti

Lascio un po’ di sorprese sia su come Trabucchi, muovendosi tra scienza, esperienza e storytelling, declina le quattro capacità e le metodologie per svilupparle; sia sulle numerose storie che racconta a supporto delle sue tesi e delle evidenze che emergono dalle sue ricerche (quella di Bruno Brunod, che accompagna diversi suoi libri, continua ad essere la mia preferita).

Colgo invece due spunti dal libro per approfondire altrettante questioni che trovo particolarmente attuali e interessanti.La prima è relativa al rapporto tra individui e tecnologie. Nei due capitoli in cui si focalizza sulla capacità di pensare in modo autonomo e sulla capacità di autoregolarsi, Trabucchi chiarisce che una delle cause principali del deterioramento di queste abilità dipende da un uso, dilagante e passivo, delle tecnologie e dei canali di comunicazione digitali, perché “rendono le persone iperemotive, incapaci di regolare l’attenzione e di tollerare la minima frustrazione, impulsive e perennemente rivolte alla ricerca di gratificazioni immediate”; e inducono a una perdita di contatto con la realtà che spinge in modo preoccupante gli individui a compiere le loro scelte in base a meccanismi di influenza sociale (gli influencer sono definiti nel libro “i sacerdoti del nulla”, pagina 95) anziché in modo autonomo.

Poiché è indubbio che le tecnologie hanno cambiato e continueranno a cambiare i nostri stili di vita, le nostre abitudini e il nostro modo di lavorare, trovo stimolante questa presa di posizione, che non mette in discussione l’uso delle tecnologie ma lancia un fortissimo segnale d’allarme sui suoi effetti nefasti. Suggerendo con chiarezza alcuni necessari e urgenti accorgimenti, quali “permettere ai bambini di costruirsi un’esperienza attiva della realtà, padroneggiare e insegnare a padroneggiare l’arte del fact-checking, implementare un minimo di alfabetizzazione scientifica, aumentare la consapevolezza di alcuni precisi fenomeni di distorsione cognitiva”.

La seconda afferisce al rapporto tra io e noi. A pagina 15, siamo ancora nel capitolo introduttivo del libro, Trabucchi scrive: “il vero cambiamento dunque – a meno che non stiamo cercando degli alibi – non può che essere individuale”. E ancora a pagina 125 esplicita: “quello che deve avvenire è un mutamento della mentalità diffusa che può basarsi solo su un cambiamento individuale”. Io sono convinto come lui che un cambiamento di mindset, di abitudini, di attitudini e di comportamenti non può che essere individuale. Ma credo che, oggi più di ieri, è nella relazione e nell’interazione tra il singolo individuo e le altre persone – gli altri attori dell’ecosistema in cui vive – che si può generare la miglior condizione affinché un cambiamento avvenga, generando via via una situazione favorevole a promuovere il cambiamento stesso.

L’accettazione del limite e la capacità di ridimensionare l’ego, una delle quattro capacità decisive per Trabucchi, può anche essere sollecitata dall’interazione con una sfida, con un record, con un’ambizione, con una menomazione, con un imprevisto. Non penso però che il cambiamento profondo atteso da Trabucchi si possa compiere in una sfida solo con sé stessi, che rischia anzi di trasformarsi in una carezza all’amor proprio e di rinforzare quell’antropocentrismo moderno che Trabucchi deplora. Gli altri non solo non sono nostri competitor, bensì sostanziano quel confine che è allo stesso tempo limite, ma anche fine comune. E, il fine comune ultimo, dipende dalle nostre capacità di gestire le tempeste del futuro, insieme.

Fonte: Il Sole 24 Ore