Come cambiano i rossi: anche i californiani non hanno più i muscoli (e il legno) di una volta
C’erano una volta i vini californiani anni Novanta, bottiglie gonfie di autostima cariche di legno, grado alcolico e sapor di confettura in bocca. La California del vino – che forse sta attraversando una crisi di coscienza – ha attualmente accompagnato alla porta i muscoli e le marmellate di un tempo. Dopo anni di bodybuilding enologico, oggi si stappano bottiglie che sanno finalmente di uva, di frutto e non solo di esercizio fisico palestrato.
Ma partiamo dagli anni Novanta – per chi aveva più di sedici anni al tempo e buona memoria ai giorni nostri – quando i vini californiani erano l’equivalente di un film di Michael Bay (Armageddon, Transformers) esplosivi, spettacolari e molto rumorosi. La Napa Valley pareva Beverly Hills in vigna. Parlo di Cabernet da 15 gradi, di Chardonnay più burrosi di una colazione americana (o della silhouette di Valeria Marini, se preferite, a voi la scelta!) e legni tostati a oltranza. Il tutto benedetto dal critico più temuto e corteggiato del pianeta: Robert Parker. Egli con i suoi “Parker points”, tradusse il gusto mondiale in una questione di muscoli e concentrazione. Si chiama marketing, e chi siamo noi per giudicare?
Era l’epoca della cosiddetta “Parkerizzazione”, termine che definiva vini scolpiti per ottenere il massimo punteggio in una classifica che, al tempo, spostava (determinava) il futuro economico dell’azienda produttrice. Calici opulenti, iperestratti, “mangia e bevi”. Veri e propri culturisti da concorso, con il frutto lucido e il legno sempre protagonista assoluto. La California al tempo era, naturalmente, la palestra perfetta per questo stile: sole abbondante, maturazioni spinte, tecnologia senza limiti e ricchi investitori pronti a tutto pur di entrare nel pantheon dei cento punti.
Poi però, lentamente, qualcosa è cambiato. I gusti del pubblico, la sensibilità dei produttori, l’attenzione al terroir e alla sostenibilità hanno spinto verso un nuovo equilibrio. Ed ecco che i vini californiani (ma non solo quelli a dirla tutta) si sono “deparkerizzati”. Hanno smesso di inseguire la potenza a ogni costo, abbandonando le concentrazioni e i legni coprenti, per ritrovare trasparenza e freschezza.
Oggi si parla di acidità, di tensione, di finezza. Zone un tempo considerate “fredde” sono diventate sinonimo di eleganza e precisione; quindi, mi pare evidente che i cambiamenti climatici non riguardino soltanto noi! Lo Chardonnay ha perso la camicia imburrata guadagnando sapidità; il Pinot Noir ha finalmente trovato la sua voce, senza più imitare in malo modo i cugini borgognoni, ma interpretando la California in chiave più centrata, quasi minimalista rispetto a prima. E comunque vale la regola che la Borgogna, terra tradizionalmente di contadini, abbia fatto scuola un po’ per tutti.
Fonte: Il Sole 24 Ore