Così i «crediti di carbonio» possono rendere l’agricoltura più sostenibile

«La pratica dei crediti di carbonio è decollata negli Usa soltanto un paio di anni fa, ma è molto promettente, perchè consente di coniugare la produzione agricola con la sostenibilità». Lo ha detto il professor Bruno Basso della Michigan University, esperto mondiale di agricoltura digitale, che ha partecipato al panel dedicato organizzato dalla Fondazione Edmund Mach all’interno del Festival dell’Economia di Trento.

Il carbon farming (letteralmente “coltivazione di carbonio”), consiste nell’agevolazione delle pratiche che trattengono il carbonio nel suolo in modo da compensare la Co2 che viene emessa in atmosfera. Questo in genere avviene attraverso pratiche di agricoltura rigenerativa e biologica, mentre risulta inefficace con quella intensiva che fa uso pesticidi e fattori chimici.
Si tratta quindi di unità di misura utilizzate per quantificare e scambiare le riduzioni delle emissioni di gas serra o le rimozioni di tali gas dall’atmosfera. Jp Morgan, Morgan Stanley, Spotify, Ip, Shell sono solo alcune delle società che negli Usa hanno attivato pratiche volontarie legate al carbon farming in agricoltura.

«È un mondo – prosegue Basso – di cui gli agricoltori stanno cominciando a valutare le opportunità e dal quale non tornano più indietro. Negli Usa il carbon farming interviene non più solo nelle transazione in-setting, ma anche off-setting. Sta crescendo anche nei mercati finanziari attraverso il sustainable investing e l’ethical finance, con investitori che ottengono maggiori ritorni economici rispetto agli investimenti convenzionali in compagnie ancora focalizzate sui fossili di carbonio».

L’Unione Europea si è posta l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 (riduzione del 55% entro il 2030) e la strategia Farm to Fork incentiva, tra le varie misure, l’impegno sul fronte del carbon farming per raggiungere il target. «Quella dei crediti di carbonio è una creatura interessante, ma giovane: bisogna aiutarla a crescere, declinandola nella pratica quotidiana e incentivando i risvolti economici – ha detto Alessandro Dal Piaz, direttore di Apot (l’associazione dei produttori orticoli trentini) e Assomela –. Al momento le maggiori criticità sono legate all’onere finanziario connesso ai costi di gestione e all’incertezza sulle opportunità di guadagno», conclude Dal Piaz.

Una considerazione più generale è arrivata da Mario Pezzotti, dirigente del Centro Ricerca e Innovazione, che ha descritto come transizione ecologica e cambiamenti climatici si possano declinare per progettare le piante del futuro.
«Il punto centrale – ha detto – è che l’agricoltura è un sistema complesso, che include tutto ciò che circonda, anche le azioni umane. Dovremmo fare un percorso di ricerca profondo e di integrazione tra le varie competenze: la scienza deve aiutare a trovare quella conoscenza che poi i decisori politici devono applicare e realizzare. L’agricoltura di oggi non è più possibile e non c’è più tempo: dobbiamo decidere».

Fonte: Il Sole 24 Ore