Cucina di confine: le donne chef al comando di fornelli stellati

«La prima volta che durante una vacanza mi hanno chiesto “Ma che cognome è il tuo?” non sapevo cosa rispondere. Per me Klugmann era un cognome normale. A Trieste in classe eravamo in venti e quasi nessuno aveva un nome di famiglia italiano». Antonia Klugmann nel mix di culture ci è cresciuta e questa complessità oggi la traduce in una cucina sperimentale e coraggiosa, in cui riesce a interpretare le molteplici identità del proprio territorio. Nello specifico Dolegna del Collio, a una manciata di chilometri dalla Slovenia.

Benvenuti in terra di confine. Dove le frontiere sono state storicamente labili, i legami familiari saturi di intrecci, le tradizioni, i costumi e la tavola un melting pot in cui tutto si sovrapponeva e, nel caso, si reinterpretava. Una disponibilità al diverso che affonda nella genetica e lascia spazio a contaminazioni virtuose. In questo senso il Friuli Venezia Giulia è un territorio da manuale. E non finisce di sorprendere. Prendiamo la cucina. Solo qui, a poca distanza l’una dall’altra, governano fornelli stellati tre grandi donne chef: una a Vencò, sull’argine dello Judri, l’altra appena oltre confine a Kobarid, l’infausta Caporetto, la terza sulle cime dolomitiche di Sappada, due volte frontiera perché nel 2008 gli abitanti con un clamoroso referendum hanno deciso di staccarsi dal Veneto per tornare in Friuli, scelta ratificata quattro anni fa.

Antonia Klugmann triestina di nome e di fatto

«Sono triestina – spiega Antonia Klugmann -, per sei secoli la mia città è stata un luogo di libertà culturale in cui tutto si è integrato: arabi, turchi, ebrei, serbi, croati, albanesi, francesi, inglesi e naturalmente austriaci. Culture diverse che riuscivano a trovare un comune denominatore anche in cucina. Ho un libro di culto, in varie edizioni, che risale agli anni Venti ed è il Ricettario di Cucina Triestina di Maria Stelvio, giornalista poliglotta, che metteva insieme le ricette di casa, quelle dei ristoranti e i piatti serviti sulle grandi navi». La cucina de L’Argine a Vencò è «istintiva», spiega Antonia. «Non rielaboro la tradizione, a volte parto da un’intuizione di abbinamento, altre da una innovazione tecnica». Ma, come per la Stelvio, il cardine è il «massimo rispetto dell’ingrediente». Da 18 anni – sottolinea – sempre con lo stesso approccio: «poco spreco, grande attenzione a territorio e stagionalità come alle risorse, sia energetiche che umane». Avendo presente che «il lusso non è quello che costa tanto ma ciò che è unico». Un esempio? «Ad ogni cambio di menu chiedo al macellaio di fiducia cosa fatica a vendere, quei pezzi difficili saranno le mie materie prime. In carta abbiamo un fegato che è come un foie gras, grazie a fermentazione e frollatura. Ci voglio almeno 15 giorni per poterlo cucinare confit e abbiamo impiegato 18 chili di fegato per trovare la procedura corretta. In fondo devo ringraziare il lockdown, ci ha dato il tempo e la concentrazione per spostare l’intera squadra di cucina sulla ricerca».

La campionessa di sci Ana Roš

Riflessioni che echeggiano a pochi chilometri di distanza, tra le pareti di Hiša Franko, antica casa colonica immersa nella valle dell’Isonzo. Qui esercita tutta la sua prorompente creatività una ex nazionale di sci, laureata in scienze internazionali e destinata a una carriera diplomatica. Completamente autodidatta, Ana Roš ha conquistato un ruolo di primo piano nell’alta gastronomia internazionale (nel 2016 Netflix le ha dedicato una puntata di Chef’s Table, quattro anni dopo la Michelin l’ha premiata direttamente con doppia stella) con una cucina ardimentosa dai sapori decisi. A chi si è scandalizzato per i suoi piatti con carne di orso Ana ribatte che ciò che conta è rispettare i cicli della natura: «è più sostenibile mangiare carne di cervi o caprioli cresciuti liberi sui monti o un pomodoro pompato in una serra a migliaia di chilometri?». Del resto la cuoca slovena da sempre ha privilegiato il ricorso alle materie prime del luogo, sostenendo i produttori locali. Nei mesi in cui il ristorante è rimasto chiuso per la pandemia il cruccio maggiore era proprio quello. «Centinaia di litri di latte invenduto, agnelli che nessuno voleva, allevatori, agricoltori e casari erano in ginocchio, bisognava inventarsi qualcosa». E così ha fatto. Grazie al lavoro d’equipe con la brigata (che in questo modo ha potuto mantenere al lavoro) Ana ha ideato ricette. Dal gelato di latte acido e miele di castagno ai cracker, i gnocchi con ricotta di alta quota, i würstel, le paste ripiene, le kombuche creative: in tutto 60 prodotti, industrializzati e messi in vendita grazie alla partnership con una catena della grande distribuzione che ha rinunciato al margine di profitto. Ana Roš è green e rock and roll. «Anche se non posso dire che Hiša Franko sia al 100% sostenibile, di certo ci sforziamo al massimo». Come nell’utilizzo degli ortaggi coltivati sulle colline di Srednje dai “talebani” biodinamici Jeanne e Matteo. «È il ristorante che si adatta al contadino, cuciniamo quello che c’è a disposizione».

La tenace Fabrizia Meroi nella casa del Laite

Dalla parte opposta della regione, sulle cime di Sappada Fabrizia Meroi, lieve e tenace come i suoi piatti, interpreta la quieta bellezza della splendida casa storica che ospita il Laite. Il ristorante gioiello creato con il marito Roberto, dove l’imperativo è «far star bene le persone». Qui – dice – manca tutto, «ma non le cose importanti, c’è un legame forte con le persone e con l’ambiente». In questo angolo di montagna dove si parla ancora l’austriaco Fabrizia non ha un orto del ristorante. Le erbe si raccolgono nel bosco, si cucina anche sulla stufa e tanti piatti nascono da ispirazioni notturne.

Fonte: Il Sole 24 Ore