Il governo dell’imponderabile: aprirsi al rischio, alla diversità, all’errore

Lorenzo ha quasi due anni. Preferisco contare l’età al massimo in semestri, come si faceva un tempo, nel mondo di prima, dove tutto sommato non c’era fretta e nemmeno troppa necessità di cogliere le differenze fra il decimo e l’undicesimo mese ad esempio. Oggi, più in generale, sembra di avere a che fare con delle forme di parmigiano. “Quanto ha il tuo”? “Ventuno mesi”. Questione di stagionatura insomma. Lorenzo fra un mese farà due anni e, in questo particolare periodo dell’esistenza umana (chiamato non a torto “i terribili due”), una delle simpatiche abitudini è il lancio degli oggetti. Meglio se fragili e pericolosi certo. Pare serva a conoscere il mondo e le cose. Questo fa rumore, questo rimbalza, questo fa disperare papà, questo pure, questo anche.

Nell’ultimo raptus da lanciatore del peso il giovane olimpionico, dopo aver colpito in piena fronte sua madre con Essere e Tempo di Heidegger (un’edizione piuttosto pesante) e infilato con precisione millimetrica in una pentola bollente 1984 di George Orwell (coglierete l’ironia della cosa), ha infine lasciato dietro di sé una scia di testi vari, fra cui questo piccolo libricino, dalla copertina nera e verde, in una carta riciclata che al tatto ricorda le vecchie collane millelire, con sopra la scritta “paginette / festival filosofia”, una foto e il nome dell’autore Salvatore Natoli (professore ordinario presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca) e il titolo: Il governo dell’imponderabile.

Una riproposizione in forma scritta di una lezione magistrale rimasta nascosta fra altri due libri, invisibile agli occhi dal 2011, finché una forma di parmigiano di ventitré mesi, l’imponderabile appunto, non ha deciso di riportarla alla luce. Ventisette pagine. Non ho resistito alla tentazione di leggerle nuovamente, con gli occhi nuovi di chi vive l’imponderabile tutti giorni, non solo da padre, ma da cittadino di questa realtà complessa, pandemica, digitale, liquida, postmoderna, ecc.

La lezione di Natoli appare ancora oggi incredibilmente attuale, offre spunti di riflessione interessanti per uomini d’azienda (e non solo, ovviamente) ed è ricca di citazioni e riferimenti che ci danno conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che molto del pensiero manageriale o afferente al mondo del business ha origini antiche, se non antichissime. Difficile in poche righe sintetizzare tutto, più facile è soffermarmi su quattro concetti chiave che mi hanno particolarmente colpito: rischio, perturbazione, equifinalità, fiducia.

Il rischio. Il tutto prende avvio da una frase di Seneca: ducunt volentem fata, nolentem trahunt, coloro che hanno la volontà amministrano il destino, coloro che non ce l’hanno ne sono trascinati. Fin dall’inizio è chiaro che quando parliamo di destino, di imponderabile, di fortuna, il tutto ha una duplice prospettiva. Da un lato le cose che ci accadono (il clima, la pandemia, le scelte della politica o dei superiori). Fermarsi qui vuol dire vivere a caso, portati via dalla corrente. Ma l’altra prospettiva ci dice che oltre alle cose sulle quali non abbiamo controllo ci sono poi le risposte che siamo in grado di dare, il contributo che forniamo con la nostra soggettività, con le nostre azioni. Fino a qui nulla di nuovo. Parliamo da anni, anche su queste pagine, di responsabilità, sistema di attribuzione, bias e sfere di influenza. Facciamo un passo in avanti allora.

Fonte: Il Sole 24 Ore