iPhone e privacy: il paradosso italiano che potrebbe bloccare lo scudo di Apple
Apple non lo dice apertamente, ma la tensione è alta. Da settimane a Cupertino osservano con crescente preoccupazione ciò che sta accadendo in Italia e in altre capitali europee. Lì dove, paradossalmente, la battaglia per la privacy potrebbe subire la più brusca delle inversioni di marcia. E tutto ruota attorno a una funzione che gli utenti conoscono bene: App Tracking Transparency (ATT), il pop-up che chiede a noi utenti se vogliamo dare il permesso all’app che stiamo aprendo di seguirci da un’app all’altra, tracciando comportamenti, abitudini, luoghi. Una finestra semplice, un Sì o un No. Una cosa così lineare da aver cambiato i rapporti di forza nel mondo dell’advertising digitale.
La dichiarazione ufficiale di Apple è chiara. «In Apple riteniamo che la privacy sia un diritto umano fondamentale, e abbiamo creato App Tracking Transparency per offrire agli utenti un modo semplice per controllare se le aziende possono tracciare la loro attività su altre app e siti web», dicono. Rivendicano di aver creato ATT per restituire alle persone un controllo diretto e immediato sui propri dati. Sostengono che la funzione sia stata accolta con favore dagli utenti, dai garanti della privacy e da una larga fetta di società civile. Ma è la seconda parte della loro frase a fotografare davvero il clima: «Non sorprende che l’industria del tracking continui a contrastare i nostri sforzi per dare agli utenti il controllo sui propri dati, e ora intense attività di lobbying in Italia e in altri Paesi europei potrebbero costringerci a ritirare questa funzione, a detrimento dei consumatori europei. Continueremo a sollecitare le autorità competenti in Italia e in tutta Europa affinché Apple possa continuare a fornire questo importante strumento di tutela della privacy ai nostri utenti». L’Italia, insomma, come epicentro di una pressione fortissima contro una delle funzioni più popolari dell’ecosistema iOS.
Dietro le quinte, il quadro è ancora più fosco. Perché l’App Tracking Trasparency è diventata, nei fatti, il nemico numero uno dell’ad tech, cioè di tutte quelle aziende che basano il proprio modello di business sulla raccolta sistematica di dati, sulla costruzione di profili dettagliati, sulla capacità di seguire gli utenti tra app, siti, servizi fisici. Prima del 2021, quando ATT non esisteva, il tracciamento silenzioso era la norma: l’utente non sapeva, non vedeva, non sceglieva. Con un solo pop-up la dinamica si è ribaltata. E i numeri spiegano perché quella finestra sia diventata un simbolo: secondo un nuovo studio commissionato da Apple, il 75% degli utenti iOS la sostiene, e la stessa percentuale di utenti Android vorrebbe averla sul proprio telefono.
Chiaramente, per chi vive di dati, tutto questo è un problema gigantesco. E anche in Italia c’è chi sta premendo sulle autorità antitrust affinché ATT venga sospesa. L’argomento portato è sempre lo stesso: esisterebbero già i banner di consenso previsti dal GDPR ed e-Privacy, quindi la schermata di Apple sarebbe un doppione, o peggio un ostacolo competitivo. Cupertino ribatte che è l’esatto contrario: le finestre di consenso dei grandi operatori pubblicitari, spesso complesse e stratificate, sono piene di dark pattern, quelle scelte grafiche e psicologiche che spingono l’utente a cliccare “Accetta”. Uno studio europeo citato da Apple sostiene che il 57% dei banner nel continente contenga elementi che guidano verso opzioni poco rispettose della privacy.
La questione, però, non viene posta soltanto come battaglia sulla privacy, ma anche come tema di concorrenza. Secondo i critici, ATT danneggerebbe gli sviluppatori e favorirebbe Apple. Da Cupertino respingono l’accusa: anche Apple è soggetta alle stesse regole, spiegano, semplicemente non mostra il pop-up perché non traccia gli utenti tra app e siti di terze parti. Non vende dati, non usa dati esterni per misurare campagne pubblicitarie. Anzi: l’azienda chiede agli utenti persino un consenso aggiuntivo per usare i dati di prima parte per personalizzare la pubblicità sulle sue piattaforme, un obbligo che non è previsto per gli altri sviluppatori.
Fonte: Il Sole 24 Ore