Lo spettacolo di Louis Vuitton e l’intensità ancestrale di Rick Owens infiammano la città

Altro che leggerezza: la terza giornata della moda uomo a Parigi è una prova di resistenza. Palle di fuoco si ergono in cielo e poi collassano al suolo. Una, due, tre. Una simbologia precisa incornicia la sfilata di Rick Owens. L’opus, intitolato Edfu, è ispirato all’Egitto, letto alla maniera di Owens, a metà tra brutalismo e B-movie. «Presso il tempio di Edfu, sull’ingresso principale, si trova un sole alato simboleggiante il dio Horus. Rappresenta il trionfo del bene sul male», racconta Owens, che negli ultimi anni ha fatto dell’Egitto un buen retiro. «Nella presentazione di oggi, un sole incantevole attraversa il cielo, cadendo a terra, ancora e ancora. Distruzione senza tempo, a ripetizione, dall’inizio del tempo».

L’esperienza, per il pubblico, è a dir poco intensa. Sfilata all’aperto, in una Parigi che brucia, con tre soli artificiali e incandescenti. Portano valore aggiunto? In realtà, questa volta, poco: il processo è ovviamente lento, e distrae. Da Owens parlano sempre e comunque i vestiti. Il resto è cornice, efficace o meno. Questa stagione colpisce la monumentalità architettonica e trasparente dei volumi, precisi ma senza peso – nylon ripstop e effetti organza per ogni dove mantengono le forme mentre le smaterializzano – e poi il dilagare infiammato dei colori accesi accanto agli usuali neri e neutri.

Owens è un creatore di rara disciplina progettuale. Il suo mondo di decadenza e collasso fermenta proprio sul più irremissibile rigore. La tensione degli opposti, che includono anche languore estenuato e abrasione cupa, è definente di uno stile ricco di nuance. Adesso è il rigore a farsi più evidente, presto contraddetto da lucori e trasparenze, e l’effetto è fiammeggiante. L’Egitto rimane una eco distante, proprio impercettibile, quindi scevra da ogni letteralità, a riprova che scegliere un tema non vuol dire essere ovvi.

Lo show di Louis Vuitton è una esperienza sfinente lunga quasi quaranta minuti e composta da: set come un gigantesco parco giochi; non una ma ben due bande marcianti in apertura e chiusura; colonna sonora eseguita live dalla megastar Kendrick Lamar. Il tutto, vien fatto di pensare, per compensare l’assenza di un direttore creativo carismatico come il compianto Virgil Abloh, la cui figura però aleggia ancora su tutto, evocata nella narrazione e anche nel rap di accompagnamento.

Insomma, si percorre la scia lunga di una scomparsa improvvisa e ingiusta, aggiungendo trucchi su trucchi, e molti effetti speciali. È un peccato, perché la cornice offusca il lavoro del team creativo, che invece è egregio, poetico, lieve e infantile. La collezione ondeggia in molte direzioni, ma ha una sua coerenza da parco giochi che affascina.

Fonte: Il Sole 24 Ore