Militari, il tono arrogante è insubordinazione con ingiuria

Nel reato militare di insubordinazione con ingiuria, l’onore e il prestigio del superiore gerarchico viene leso non solo da ogni atto e parola di disprezzo ma anche dal tono arrogante. Atteggiamento, per lo più psicologico, quest’ultimo che – sottolinea la Cassazione – «nel diritto comune non viene preso in considerazione». Un rigore particolare giustificato da un’esigenza tipica della disciplina militare, secondo la quale «il soggetto di grado più elevato deve essere tutelato, non solo nell’espressione della sua personalità umana, ma anche nell’ascendente morale di cui ha bisogno per un degno esercizio dell’autorità del grado e della funzione di comando». A ricordarlo è la Suprema corte che accoglie il ricorso della Pubblica accusa contro la decisione della Corte militare d’appello di assolvere un maggiore dal reato di insubordinazione con ingiuria, con la formula perché il fatto non costituisce reato. Nel mirino dei giudici era finito un rapporto teso tra l’imputato, che aveva il grado di maggiore, e un colonnello dovuto alle difficoltà nell’assegnazione di un alloggio di servizio, per cause non imputabili a quest’ultimo.

La tutela dell’ascendente morale del comandante

In particolare aveva pesato una lettera nella quale il maggiore accusava il suo superiore di essersi comportato da comandante-padrone. Per la Corte d’Appello militare era solo uno sfogo, figlio del disagio e di uno stato d’animo turbato per una situazione che non si riusciva a sbloccare. Ma la Cassazione non è d’accordo nel considerare prive di rilevanza penale le parole «fuori misura». E ricorda appunto che l’autorità dei comandanti non può essere messa in discussione non solo con le parole ma anche con i toni se arroganti.

Un “particolare” figlio più di uno stato d’animo, o di retaggi culturali, estraneo al nostro ordinamento. Ma per restare in linea con il codice militare i giudici di legittimità, affermano l’esistenza del reato. Tuttavia, lo considerano non punibile per particolare tenuità del fatto. La Cassazione si era già occupata delle intonazioni con la sentenza 31829/2019. Allora lo scambio verbale “incriminato” era un reciproco invito ad uscire da un ufficio. In quell’occasione i giudici avevano precisato che, perché ci sia il reato è necessario che si inserisca in un rapporto di effettiva – e non solo pretesa – subordinazione gerarchica.

Fonte: Il Sole 24 Ore