Nba, la ripartizione dei ricavi deve mantenere l’equilibrio tra grandi e piccoli

La ripartizione dei ricavi in Nba parte da un concetto base: l’equilibrio. Quello che deve sussistere tra big market e small market, in modo da rendere competitive tutte le 30 franchigie presenti. Il motivo per cui i Golden State Warriors sono passati dall’essere una franchigia storicamente perdente a una delle superpotenze del basket americano; lo stesso vale per i Toronto Raptors campioni nel 2019 per la prima volta nella loro storia. In sintesi: tutti i club destinano a un fondo comune una percentuale dei loro ricavi e ricevono 1/30 di questa somma. Chi mette di più riceve di meno e viceversa.

Il contratto siglato nella Nba

Stando all’accordo siglato nell’ultimo contratto collettivo, i salari dei giocatori vanno pagati con una percentuale che oscilla tra il 49 e il 51,2% dei “Basketball related income” (Bri), ovvero i ricavi derivanti dall’attività cestistica. Il resto (dal 48,8 al 51% del monte ricavi) va ai proprietari delle franchigie. I Bri includono diritti televisivi nazionali e internazionali, botteghino, pubblicità, sponsorizzazioni, merchandising, scommesse e proventi dai propri asset.
Le proiezioni dei Bri influiscono sulla soglia posta dalla Nba per il salary cap, pari a 109,14 milioni di dollari per la stagione 2020/21. Più aumentano i ricavi, più viene innalzato il tetto salariale, ma questo meccanismo non è stato adottato per il campionato in corso: nella stagione 2019/20, a causa della pandemia e della “guerra fredda” con la Cina, il fatturato è crollato del 10% (dagli 8,3 miliardi di dollari del 2019), però il salary cap è rimasto invariato.
Quello che accade in condizioni normali, dunque, è una prima suddivisione dei ricavi tra proprietari e giocatori, all’incirca metà ciascuno. Tolta dunque la massa salariale destinata ai cestisti, una parte di quel che resta finisce nel calderone dei ricavi da redistribuire.

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Il calcolo dei versamenti

La formula adottata dalla Nba per calcolare quanto debbano versare le 30 squadre tiene conto dell’audience televisiva, che determina quale franchigia possa essere considerata uno “small market” (e dunque debba versare una percentuale inferiore) e quale invece sia un “big market” (destinata a versare una percentuale maggiore).
Una squadra può arrivare a versare un contributo pari al 50% dei propri ricavi, escludendo dal calcolo determinati costi operativi.In questo modo, agli small market (che non riescono ad avere ricavi televisivi locali remunerativi quanto quelli dei big market) viene garantita una ripartizione equa dei ricavi nazionali e internazionali.

Come funziona nel football

Nella Nfl i ricavi sono suddivisi in nazionali (televisivi, merchandising, 40% del botteghino, sponsor) e locali (60% del botteghino, concessioni, sponsor corporate). Nel 2019, le 32 squadre del campionato professionistico di football americano si sono divise un totale di 9,5 miliardi di dollari di proventi complessivi. Circa due terzi di questa cifra, stando a quanto dichiarato da Mark Murphy, Ceo dei Green Bay Packers, «proviene dai ricavi televisivi, o nazionali, ed è abbastanza per coprire i costi dei giocatori».

Fonte: Il Sole 24 Ore