Permesso premio al boss stragista anche se non si pente e non collabora

Anche il boss condannato a più ergastoli per la strage di Capaci e gli attentati di via dei Georgofili a Firenze, di via Fauro a Roma e via Palestro a Milano, ha diritto al permesso premio, se ha ottenuto la revoca del 41-bis ed ha reciso i suoi collegamenti con la mafia. Dopo la sentenza della Consulta, infatti, l’accesso ai benefici previsti dall’ordinamento, non può essere negato alle persone condannate all’ergastolo per reati ostativi, partendo da una presunzione assoluta di pericolosità, ricavata anche dall’assenza di collaborazione con lo Stato. E per la Cassazione il permesso premio non può essere rifiutato neppure se l’assenza di collaborazione è il frutto di una scelta e non rientra nella cosiddetta collaborazione impossibile. Nè pesa l’assenza di «un’emenda intima e personale ed umana del proprio passato», quello che conta – precisa la Suprema corte con la sentenza 19536 – è solo «la proiezione attuale a recidere i collegamenti criminali e mafiosi e a non riattivarli nel futuro, in una prospettiva dinamica di rieducazione e recupero del detenuto, monitorata attraverso un esame a tutto campo della sua vita».

Il curriculum del boss di Brancaccio

La Corte di cassazione ha così accolto il ricorso di Giuseppe Barranca, boss della famiglia mafiosa di Brancaccio, contro il no alla richiesta del permesso premio. Un beneficio rifiutato dal Tribunale di Sorveglianza, malgrado la revoca del 41-bis e il corretto comportamento in carcere. Sul no del Riesame ha pesato «il curriculum criminale di elevatissimo spessore (i numerosi ergastoli definitivi inflittigli per il concorso – avevano scritto i giudici – in alcune delle stragi più orribili della nostra storia mafiosa: gli attentati di via Palestro a Milano; di via dei Georgofili a Firenze; di via Fauro a Roma; la strage di Capaci). Per attualizzare la pericolosità era stato valorizzata anche la nota dell’Anticrimine di Palermo, con la storia criminale dell’”uomo d’onore” ai vertici di Cosa nostra. Ed è proprio il ruolo di primo piano ricoperto che aveva indotto il Tribunale a considerare pienamente possibile la collaborazione con lo Stato, e dunque del tutto volontario il «silenzio non collaborante». Per i giudici del risame la mancata dissociazione, il rifiuto del vissuto criminale mafioso e l’ assenza di azioni riparatorie a favore delle vittime, rendevano difficile ipotizzare la cessazione del legame di appartenenza al sodalizio mafioso. Il percorso logico seguito dal Tribunale non tiene però conto della sentenza della Consulta (253/2019) che supera il criterio della scelta collaborativa, affermando il diritto ai benefici anche per chi non è disponibile a “parlare”. La Cassazione punta invece l’attenzione sull’ineccepibile percorso intramurario del condannato che aveva inquadrato, come risultava da una relazione della casa di reclusione, la sua scelta criminale nel difficile contesto familiare, caratterizzato dalle difficoltà economiche dopo la morte del padre. Sbaglia il Tribunale a fare valutazioni “morali” e a mettere sul piatto della bilancia le condotte delittuose e la corretta vita in carcere per sottolineare la palese sproporzione. Anche il rifiuto del ricorrente di utilizzare il termine “mafia” viene letto come insensibilità rispetto al passato.

Niente valutazioni morali

Ma per la Cassazione non sono queste le valutazioni che un giudice deve fare, senza contare l’errore concettuale, commesso da molti di confondere – avverte la Suprema corte – la collaborazione con lo Stato con il pentimento. Né il Tribunale può cercare «un’abiura morale che non appartiene all’orizzonte legittimo delle valutazioni giuridiche». La via che il giudice deve seguire i giudici di legittimità la tracciano dettando un principio di diritto, chiarendo che il giudice di sorveglianza, per verificare la possibilità di concedere i permessi premio ai detenuti per reati ostativi di prima fascia, anche in caso di mancata collaborazione con la giustizia, deve compiere un esame in concreto di elementi di fatto individualizzanti del percorso rieducativo del detenuto. E l’obiettivo non è desumere «un’emenda intima, personale ed umana del proprio passato, bensì la proiezione attuale a recidere i collegamenti criminali mafiosi e a non riattivarli nel futuro, in una prospettiva dinamica di rieducazione e recupero del detenuto, monitorata attraverso un esame a tutto campo della sua vita».

La relazione dell’antimafia

La sentenza della Cassazione arriva pochi giorni dopo la proroga di sei mesi, concessa dalla Corte costituzionale al parlamento italiano per approvare la legge di modifica dell’ordinamento penitenziario sull’ergastolo ostativo. La dead line è stata spostata all’8 novembre, considerando che nel frattempo un progetto di legge per modificare l’ergastolo ostativo è stato approvato dalla Camera e deve essere ancora discusso al Senato. Sull’argomento è intervenuta, con varie proposte, anche la commissione parlamentare. Nella seconda relazione, a firma del senatore Pietro Grasso e della deputata Stefania Ascari, votata all’unanimità dai componenti, si ritiene opportuna un’apposita previsione per rendere inammissibile la richiesta dei benefici da parte dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis. L’Antimafia auspica che la nuova legge, apra alla possibilità di accesso a “tutti i benefici” non solo per i permessi premio – oggetto di un primo intervento della Consulta nel 2019 – ma anche per lavoro all’esterno, semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale e liberazione condizionale.

La scelta di non collaborare

Secondo la Commissione, all’interno dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario – che elenca i cosiddetti “reati ostativi” che precludono l’accesso ai benefici in assenza di collaborazione – vanno distinte due categorie, facendo rientrare nella prima, con un onere probatorio più stringente, la criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico-eversiva, e nella seconda tutte le altre fattispecie (ad esempio i vari reati contro la pubblica amministrazione).E tra chi non collabora è necessario distinguere tra «silente per sua scelta» e «silente suo malgrado»: questo secondo caso rientra nell’ipotesi di collaborazione “impossibile o inesigibile” sottolineata dalla stessa Corte Costituzionale. Secondo l’Antimafia sarà compito, quindi, della magistratura tenere conto delle ragioni della mancata collaborazione al fine di verificare l’assenza di collegamenti attuali con il mondo criminale di appartenenza e il pericolo di ripristino.

Fonte: Il Sole 24 Ore