“Tommy guns”, un anomalo film portoghese per riflettere sulla guerra

Una riflessione sulla memoria storica e sui conflitti di ieri e di oggi: si può riassumere così “Tommy Guns” di Carlos Conceição, regista portoghese nato in Angola nel 1979.
Ambientato proprio nella nazione africana nel 1974, il film si apre mostrando il progressivo abbandono, da parte dei portoghesi e dei loro discendenti, di un territorio che viene via via riconquistato dagli indipendentisti. Mentre la colonizzazione giunge al termine, la strada di una ragazza locale si incrocia con quella di un soldato portoghese, che le porterà amore e morte.

È soltanto l’incipit di “Tommy Guns”, un film che prosegue raccontando di un plotone portoghese barricato all’interno di uno spazio murato, da dove uscire sembra praticamente impossibile.Tra i titoli più interessanti visti in concorso al Locarno Film Festival fino a oggi, questa pellicola mescola influenze che vanno dal romanzo “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati al film “The Village” di M. Night Shyamalan: nonostante i molti spunti provenienti dal passato, il lungometraggio di Conceição riesce a mantenere una propria originalità, a sorprendere e a scuotere per quasi tutte le due ore di durata.Molto ambizioso e non poco complesso, “Tommy Guns” prende strade decisamente anomale per parlare della guerra e farci riflettere su di essa, sottolineando più volte quanto il conflitto sia soprattutto uno stato mentale in cui i veri nemici siamo noi stessi.

Una riflessione sulla Storia

Utilizzando la metafora politica degli zombie, il film è inoltre una riflessione sulla storia e sulla tirannia, con un senso spesso metafisico e con ragionamenti che arrivano fino ai giorni nostri e toccano anche una certa attualità.Non mancano imperfezioni e alcuni passaggi sono molto confusi, ma il disegno generale offre un pensiero non da poco sulla natura ciclica delle oppressioni e sul desiderio di molti esseri umani di mantenere a ogni costo il proprio potere sugli altri.Dotato inoltre di una notevole fotografia, “Tommy Guns” si fa apprezzare per l’estetica generale e per una confezione che riesce a sopperire ad alcuni limiti drammaturgici.Per tante ragioni, è un film che potrebbe trovare spazio nel palmarès finale della manifestazione svizzera.

Stone Turtle

Esiti purtroppo diversi sono quelli raggiunti da “Stone Turtle” di Ming Jin Woo, una coproduzione tra Malesia e Indonesia.Presentato anch’esso in concorso, il film ha come protagonista Zahara, una rifugiata apolide che vive su un’isoletta sperduta in Malesia, dove si guadagna da vivere vendendo uova di tartaruga. Un giorno Samad, sostenendo di essere un ricercatore universitario, visita l’isola, e vuole assumere Zahara come guida. Con il procedere della giornata i due si troveranno al centro di una serie di imprevisti.Per stessa dichiarazione del regista, “Stone Turtle” vorrebbe essere un viaggio profondamente metaforico di una donna in cerca di giustizia personale e sociale ma, nonostante le buone intenzioni e un suggestivo soggetto di partenza, il film si perde molto presto risultando troppo pasticciato e confuso.Gli elementi relativi al folklore e alle tradizioni popolari sono affascinanti, ma rischiano di essere più una scelta evocativa di atmosfere dal sapore magico che un vero e proprio motivo valido per offrire spunti di lettura che faticano ad arrivare.Meglio la cornice del quadro, in questa pellicola che rischia di essere dimenticata molto in fretta.

Fonte: Il Sole 24 Ore