
A Tel Aviv vita sospesa tra normalità e guerra: «Per noi non è strano»
La soldatessa con la coda di cavallo che cammina davanti a me alla stazione dei treni Savidor di Tel Aviv è giovanissima, avanza piegata sotto il peso del borsone verde militare che tiene sulle spalle. Da una parte ha appeso un piccolo pelouche rosa. Dall’altra tiene un mitra.
Tel Aviv è così: sospesa tra normalità e guerra, leggerezza e violenza. Tanti soldati post adolescenti con poca barba affollavano lunedì le banchine della stazione. Molti tornavano a casa per la festa di Sukkot che stranamente coincideva con l’anniversario del 7 ottobre e di due anni dall’inizio della guerra. La loro presenza, assieme alle foto appese ovunque dei combattenti e degli ostaggi, sono un post it mentale costante del fatto che anche se sembra tutto normale, anche se non ve lo ricordate il paese è in guerra. E d’altra parte a volte suonano le sirene. Ieri dei razzi, intercettati, sono stati sparati dal nord della Striscia verso la zona centrale di Israele, che ha risposto con un raid verso Gaza.
Ma per la maggior parte del tempo la vita scorre rilassata: la spiaggia è affollata, sul lungomare si fa sport, i ristoranti propongono piatti elaborati e frullati esotici, giovani ragazzi fumano e bevono birra. Non è solo la superficie: la Borsa qui in due anni è salita del 200%, l’economia va discretamente, il tasso di natalità è sorprendentemente alto. Si impugna un fucile o la crema solare a seconda del momento. Come tutto questo si concili è difficile da spiegare.
Eli ha 28 anni, è laureato in ingegneria e lavora nel settore tecnologico. Sdraiato al sole dice subito che non vuole parlare di politica, non gli interessa: «È strana questa vita per gli europei, ma è la normalità per gli israeliani. Da tanto tempo conviviamo con questa situazione, non sono solo due anni».
La sua amica Avigail, 27 anni, ha una laurea in management. «Viviamo in un paese in guerra e a volte siamo costretti ad andare nei rifugi. Ma allo stesso tempo però possiamo anche andare in spiaggia. Sì, è tutto molto strano». Le chiedo se pensa mai a quello che accade a Gaza, a pochi chilometri da qui e come si convive con questa consapevolezza: «Con sentimenti contrastanti: a volte ci sentiamo in colpa perché possiamo divertirci mentre i nostri soldati stanno combattendo». Ad Avigail, come a molti altri con cui parlo, non viene neppure in mente che quando dico se pensano a Gaza mi riferisco anche ai gazawi, agli oltre 67mila morti, agli sfollati, alla distruzione nella Striscia. Quando dico quello che sta accadendo a Gaza lei pensa solamente ai soldati dell’Idf.
Fonte: Il Sole 24 Ore