
Al festival di Vienna un controverso testo di Elfriede Jelinek
Fu la “farsa con canti” dal titolo “Burgtheater” che all’inizio degli anni ‘80 guadagnò a Elfriede Jelinek l’inossidabile etichetta di “Nestbeschmutzerin”, di infangatrice della patria, tanto che la poi Premio Nobel per la letteratura ebbe a dire: “Quello è stato l’inizio del mio decadimento in Austria come autrice”.
Quel testo incentrato su celebri attori del teatro nazionale austriaco, il Burghteater appunto, che durante il nazismo collaborarono attivamente col regime, e poi ripresero senza scosse la propria attività nel dopoguerra, precorse di sette anni il ben più noto “Piazza degli Eroi”, che Thomas Bernhard scrisse nell’anno del 50° anniversario dell’annessione dell’Austria alla Germania e che andò in scena proprio al Burgtheater, ancorché tra clamori, proteste e financo minacce.
In oltre quattro decenni, Jelinek non trovò in alcun direttore di quel teatro il necessario sostegno affinché venisse messo in scena quel suo pungente atto di accusa contro Paula Wessely, il marito Attila Hörbiger, il cognato Paul Hörbiger. Anche dopo che negli anni ’80 i tre uscirono via via di scena, la loro memoria di grandi beniamini dei viennesi continuò a rifulgere e dentro alla stessa prestigiosa istituzione il loro scomodo testimone passò alle tre figlie Elisabeth (1936-2025), Christiane (1938-2022) e Mavie (nata nel 1945): un allestimento di “Burgtheater” avrebbe rischiato di suscitare un’indignazione popolare, in una città in cui il teatro gioca da sempre un ruolo preminente e il passato nazista permane indistrutto in sacche neanche tanto nascoste.
“Burgtheater”
“Burgtheater” andò in scena defilato a Bonn nel 1985, e poi a Graz, nel 2005, ad opera di una compagnia off. Jelinek rifiutò di concedere i diritti per qualsiasi altro allestimento fino a quest’anno, in cui l’80° anniversario della fine della seconda guerra mondiale ha suggerito un ripensamento, messo in atto da due elvetici a 44 anni dalla sua creazione: il nuovo sovrintendente del Burgtheater Stefan Bachmann e il direttore del festival Wiener Festwochen, Milo Rau, che hanno concordato una coproduzione.
La regia è stata firmata da quest’ultimo, che ancora una volta, com’è nelle sue corde, ha dato il via a uno spettacolo militante e senza compromessi. In consonanza con l’autrice, il testo è stato ampliato con un’attualizzazione rivolta soprattutto alle nuove generazioni, che con il tema non hanno necessariamente dimestichezza. Da qui numerosi interventi. Innanzitutto la cornice creata dal regista con l’introduzione di due personaggi – una ragazza e un ragazzo – che girano un podcast sul ‘making of’ dell’allestimento. Un artificio che consente ai due di introdurre personaggi e spiegare fatti storici. Rau ha anche chiesto agli attori dai cognomi con evidenti radici estranee al contesto nazionale austriaco, di proporre dei ricordi personali attinenti a persecuzioni naziste di propri famigliari o a disavventure migratorie quando decisero di trasferirsi a Vienna. Il risultato è una serie di monologhi dal carattere intimo, che interrompono l’azione della farsa della Jelinek, di cui permangono alcune scene fondamentali. Ma vi sono anche due monologhi tratti da film di propaganda nazista, in cui spiccava l’interpretazione di Paula Wessely: due momenti che lasciano pochi dubbi sul coinvolgimento dell’attrice col regime di Hitler, in particolare quello dal film “Heimkehr” del regista Gustav Ucicky, figlio naturale di Gustav Klimt, nonché fervente nazista e collezionista di opere del padre.
Fonte: Il Sole 24 Ore