Al salone del libro, tra razziste e manganelli

Al salone del libro, tra razziste e manganelli

«Traduco a ogni ora del giorno e della notte, anche quando sogno» afferma Nicola Crocetti, il traduttore ed editore che da decenni porta in Italia le voci dei poeti di tutto il mondo, oltre che scoprire quelle italiane. E poi si commuove parlando di qualcuno che a tremila metri d’altezza aveva scolpito su una roccia la frase «Per favore, leggete poesia». «Traduco, dunque sono» dice addirittura Jhumpa Lahiri, autrice di Perché l’italiano (Einaudi). Tradurre come presa di posizione politica ed esistenziale – fare risuonare in sé l’altro -, leggere, coltivare l’intelligenza razionale e quella estetica, l’empatia, sfuggire alla fallace logica del controllo, sono i Leitmotive che si sentono ripetere nelle piccole sale conferenze del Salone del Libro di Torino, raramente piene, nonostante tra gli stand e nei piazzali il pubblico non pare diminuito.

Fuori, alle porte del Salone, si viene a sapere che sono stati manganellati manifestanti proPal. Dentro, ma altrove, su un palco del Salone, l’assessore regionale al Welfare, Maurizio Marrone, presenta il collettivo francese razzista, sedicente «femminista di destra, soprattutto di destra», che sostiene che il più grande pericolo per le donne è l’immigrazione di massa e lamenta la diffusione dell’islam in Europa. A differenza degli incontri femministi o con autrici donne che abbiamo potuto seguire – dove il pubblico era composto quasi essenzialmente da donne (una sala piena solo a metà, e con due soli uomini presenti, all’incontro con Luciana Castellina) – in questo caso il pubblico è composto al 95% da uomini che applaudono vigorosamente e virilmente all’unisono alle varie affermazioni politiche delle tre rappresentanti di Némésis. Chiamate solo per nome: Anaïs, Mathilda, Astrid, senza alcun contraddittorio da parte di Valentina Menassi, redattrice del «Giornale» che dà loro la parola, raccontano il loro terrore nel muoversi in una Francia popolata da immigrati stupratori dove, sostengono, si sta cercando di imporre il velo alle donne nello spazio pubblico per «invisibilizzarle».

L’atmosfera tra i professionisti del libro è mesta. I dati dell’Associazione italiana editori mostrano l’intensificarsi della flessione del mercato librario nei primi quattro mesi del 2025. Romanzi e saggi perdono in valore il 3,6% rispetto allo stesso periodo del 2024 e il calo delle copie vendute è stato del 3,2%: quasi un milione di libri acquistati in meno su 29,2 milioni complessivi. Resistono i grandi, ma è gravissima la crisi dei medi editori (quelli che vendono libri per 1-5 milioni di euro): perdono il 13,1%; i piccoli perdono il 7,3%. Un duro colpo per la bibliodiversità e la circolazione di idee nuove, diverse, cui contribuiscono sostanzialmente i piccoli e medi editori.

«Non basta cambiare le cose che dici, devi anche cambiare il modo in cui le dici, se vuoi cambiare il mondo» ha affermato lo scrittore Davide Longo a un incontro per celebrare i primi 50 anni del Sistema periodico, autobiografia in ventuno racconti del chimico Primo Levi, riflettendo su autori come Beppe Fenoglio e Levi stesso, che «seppero trovare un linguaggio nuovo, capace di liberarci dalla retorica che aveva portato fascismo, e che così cercarono di cambiare il presente». «Cambiare il modo per cambiare il mondo» riassume il concetto con un gioco di parole Domenico Scarpa, consulente letterario del Centro studi Primo Levi di Torino.

«Ho paura che con il mio prossimo libro non mi permettano più di tornare in Ungheria» afferma la scrittrice tedesca di origine ungherese Terezia Mora – finalista al premio Strega europeo, che sarà annunciato oggi pomeriggio, con La metà della vita (traduzione di Daria Biagi, Gramma Feltrinelli) – dopo aver anticipato al pubblico che questo parlerà del suo Paese d’origine e della sua politica. La metà della vita è il primo volume di una trilogia in cui affronta il femminile. Protagonista un’intellettuale, una donna indipendente, che però diviene dipendente da un uomo. Naufraga nella devozione a una persona violenta e anaffettiva. Per l’autrice si tratta del primo romanzo in cui la protagonista è una donna, e primo scritto in prima persona: «Una storia così si può raccontare solo in prima persona, non ce ne può essere una terza che giudica, o che fa commenti». Tuttavia Mora si è resa conto che, anche così, mentre dava corpo alla sua protagonista, la giudicava. «Allora per un mese ho invertito le parti: lui è diventato la vittima lei la carnefice». Ho riconosciuto la mia misoginia, la misoginia che avevo introiettato, con questo libro – afferma l’autrice – e forse l’ho superata. Se tutto va bene si diventa migliori con i propri libri».

Fonte: Il Sole 24 Ore