Al Teatro Regio di Parma la “Messa da Requiem” diretta da Robert Treviño
Chiude i battenti il Festival Verdi edizione numero venticinque, ma non si siede sugli allori. Dopo aver raccolto costanti successi, provenienti da tutte le parti del mondo e per l’intero mese di programmazione, già è pronto a scaldare i motori per l’autunno 2026 e ne annuncia i titoli portanti: “Nabucco” e “Alzira” al Regio di Parma e la imperdibile “Aida” di Franco Zeffirelli nello scrigno di Busseto. Allestita qui un quarto di secolo fa, capolavoro di regia poetica e di visione strategica, dimostrò come rendere vera la più fastosa delle opere verdiane pur in uno dei teatri più piccoli del mondo. Memorabile. Non fosse altro che per la Marcia trionfale, ad altezza di occhi di un bambino mischiato tra la folla. Dove del fasto si percepisce l’effimero, tra confusione e polvere.
Ma anche l’anno prossimo non ci saranno solo opere al Festival Verdi, e legate dal “fil rouge” dei mondi lontani, dell’esotico. Perché alla terna si aggiungerà nuovamente “Messa da Requiem”, la grande pagina sacra un tempo riservata a occasioni celebrative e anniversari, e che sta invece diventando dalle ultime stagioni il vero perno del Festival. Pagina di sintesi, collettore di quel vasto mondo di trame e affetti che la scrittura di Verdi aveva ritratto fino a lì per le scene teatrali. Anche nei giorni scorsi l’abbiamo ascoltata, tutta nuova e in una delle ultime giornate verdiane. Teatro Regio da tempo “sold out” e attenzione di ascolto rara.
Merito, innanzitutto, della concertazione di Robert Treviño, che debuttava a Parma e alla quarta volta sul podio per questa partitura. Chi si fosse aspettato una lettura “technicolor”, appariscente e effettistica – viste le radici texane del direttore, criterio da cancellare – si è dovuto ricredere. La tenuta puntava a valorizzare l’aspetto sinfonico della scrittura, e dunque agli impasti strumentali equilibrati, ben valorizzati in tutte le famiglie orchestrali. Bene la Filarmonica Toscanini, che tuttavia, proprio per il nome che porta, potrebbe migliorare definizione ritmica e l’articolazione tecnica. Tempi morbidi, in particolare nelle sezioni volatili (vedi il “Sanctus”) che si immaginano sempre come copiate dagli sgambettii del Correggio, nella cupola del Duomo di Parma.
Molto bene invece la tenuta d’assieme e la risposta stagliata sul contrappunto da parte del Coro del Teatro Regio, preparato come sempre con passione da Martino Faggiani. Tanto eloquente che persino il latino marmoreo sembrava parlare come lingua di oggi nei momenti di maggior tensione emotiva, dai ribattuti del “Dies Irae” alle invocazioni del “Libera me”.
Quartetto di solisti, scelto con particolare originalità. Accanto alla presenza rassicurante al timone di Michele Pertusi, basso parmigiano capace di unire stile solenne ed espressivo, con splendidi esempi di legato, cantavano il tenore Piero Pretti, di bello slancio eroico, e due voci femminili particolarmente intense, meritevoli di attenzione. Lei, Marta Torbidoni, elegante, intonatissima, taglio incisivo sulle note, sempre lucenti. E lei, Valentina Pernozzòli, ventinove anni, scoperta recentissima lanciata dal Festival, baciata dagli dei per il colore nel canto, con tanta varietà di sfumature da trasformare in magico il registro di mezzosoprano, al pari di una pietra rara. Ecco perché proprio per questa voce Verdi scrisse le sezioni più aristocratiche della sua “Messa da Requiem”. Ieri, nel 1874 in San Marco a Milano c’era Maria Waldmann, oggi c’è Valentina.
Fonte: Il Sole 24 Ore