Al via il marchio “Biologico italiano”, tutelerà i prodotti made in Italy

Al via il marchio “Biologico italiano”, tutelerà i prodotti made in Italy

A più di tre anni dall’entrata in vigore della legge quadro sull’agricoltura biologica, l’Italia finalmente lancia il marchio Biologico italiano, che tutelerà le produzioni 100% nazionali. Per il suo battesimo il ministero dell’Agricoltura ha scelto la giornata europea del biologico, che si è celebrata ieri e che a Roma ha visto riunite le principali associazioni agricole e di settore. Dal ministero fanno sapere che servono ancora quattro o cinque mesi di lavoro: il nuovo marchio – un cuore tricolore con affianco la dicitura “biologico italiano” – dovrebbe dunque essere sugli scaffali già all’inizio dell’anno prossimo.

«Il marchio era una cosa che stavamo aspettando – dice la presidente di Federbio, Maria Grazia Mammuccini – i dati ci dicono che sia per i consumatori italiani che per quelli esteri esiste un legame stretto tra l’origine della materia prima e l’idea della sostenibilità. Credo che questo nuovo marchio sia una grande opportunità per aumentare il nostro export, ma anche i consumi interni».

Sempre ieri sono stati presentati i dati aggiornati sul mondo del bio in Italia. Secondo l’Ismea, il numero complessivo degli operatori ha superato quota 97mila, il 2,9% in più rispetto al 2023 e ben il 62% in più nell’ultimo decennio. Di questi, le aziende agricole vere e proprie sono aumentate del 3,4% e sono ormai più di 87mila. Anche la domanda di prodotti bio è in crescita, per un mercato che oggi vale 3,96 miliardi soltanto nel canale della grande distribuzione.

Per quanto riguarda la superficie coltivata a biologico, secondo i dati presentati ieri nel nostro Paese sono stati superati i 2,5 milioni di ettari, pari a circa un quinto (20,2%) di tutto lo spazio coltivabile. Ma l’Italia ha veramente tutti questi campi bio? Secondo le tabelle dettagliate del Sinab (il Sistema di informazione nazionale sull’agricoltura biologica) di quei 2,5 milioni di ettari circa 500mila sono ancora in pieno processo di conversione, e se va bene potranno essere definiti bio a tutti gli effetti fra due o tre anni. Poi c’è un 3% di terreni a riposo, quindi non coltivati. Ma, soprattutto, c’è un 29,7% di prati e pascoli: il fatto che siano catalogati come bio è dovuto al fatto che sono terreni incolti, lasciati alle erbe selvatiche. Se nessun prodotto chimico vi è stato aggiunto per trattarli, è semplicemente perché nessuno se ne occupa attivamente. Un altro 22,8% delle terre presenti nella banca dati Sinab, infine, è etichettato come “colture permanenti”, una categoria all’interno della quale rientrano sì le coltivazioni foraggere come il mais o l’erba medica, ma anche una quota parte di erbe incolte. Cioè, ancora una volta, di pascoli.

Fonte: Il Sole 24 Ore