Al via la seconda settimana di shutdown: ecco come è andata Wall Street nei 22 casi precedenti
L’America entra nella seconda settimana di shutdown e, come spesso accade in queste fasi, gli investitori si trovano costretti a navigare a vista. La sospensione delle attività governative blocca la pubblicazione dei principali dati macroeconomici, dal rapporto mensile sull’occupazione alle statistiche sull’inflazione, privando i mercati di quelle ancore informative che normalmente guidano le decisioni. Il risultato è un mercato che si muove in base al sentiment e alle aspettative, senza i consueti riferimenti quantitativi. È una situazione che accentua l’incertezza e alimenta la volatilità, ma che la storia mostra avere un impatto meno lineare di quanto si possa pensare.
La relazione con i mercati
Dal 1976, anno in cui è entrato in vigore il sistema di bilancio attuale, si sono registrati 22 shutdown federali, di durata e portata molto diverse. Alcuni sono stati brevissimi, di poche ore o pochi giorni, altri hanno avuto un impatto più rilevante, come i 21 giorni del 1995-1996 sotto l’amministrazione Clinton, i 16 giorni del 2013 con Obama e soprattutto i 34 giorni del 2018-2019 con Trump, che resta ancora oggi lo shutdown più lungo della storia americana. Nonostante questi record negativi, i mercati hanno sempre mostrato una sorprendente capacità di resilienza.
Guardando ai dati complessivi degli ultimi cinquant’anni, emerge un quadro sfaccettato. Nel periodo strettamente coincidente con lo shutdown, l’indice S&P 500 è salito nel 54,5% dei casi, una maggioranza risicata che dimostra come le fasi di paralisi politica possano tradursi in andamenti contrastanti, spesso più legati al contesto macro esterno che allo shutdown in sé. La statistica diventa invece molto più netta se si guarda all’orizzonte di medio termine: nei dodici mesi successivi, l’indice ha chiuso in positivo nell’86% degli episodi, con una performance media del 12,7%. Questo significa che gli investitori, pur vivendo con incertezza i giorni di stallo, finiscono per considerare lo shutdown come un evento transitorio, più vicino a un teatrino politico che a un rischio strutturale.
I casi in cui le borse hanno sofferto
Ci sono stati, certo, casi in cui le Borse hanno sofferto. Nel novembre 1995, il mercato perse il 3,7% durante i 5 giorni di chiusura. Nel settembre 1976, durante gli 11 giorni di stallo sotto l’amministrazione Ford, l’S&P 500 lasciò sul terreno il 3,5%. E più recentemente, nell’ottobre 2013, sotto Obama, i 16 giorni di shutdown coincisero con un calo dell’1,1%. Ma anche in queste circostanze, il quadro di medio periodo si è rivelato diverso: nei dodici mesi successivi la performance è tornata positiva, segnalando che le correzioni erano più che altro fisiologiche o legate a fattori esogeni e non tanto alla paralisi del Congresso.
Questo spiega perché in queste settimane, anche in assenza di dati economici e di veri market mover, la reazione di Wall Street rimane improntata a una relativa calma. Certo, la mancanza di statistiche ufficiali lascia i desk a muoversi alla cieca, basandosi su indicatori secondari o su segnali tecnici, ma non c’è la sensazione che lo shutdown possa rappresentare un fattore dirompente. Anzi, paradossalmente, il venir meno di report come il payrolls o l’inflazione mensile riduce la possibilità di scossoni legati alla politica monetaria, spingendo gli operatori a focalizzarsi più sui trend di mercato che sulle parole della Federal Reserve.
Fonte: Il Sole 24 Ore