Anish Kapoor, novello alchimista in mostra a Palazzo Strozzi

Varcando in questi giorni le porte di Palazzo Strozzi si ha a che fare non con una semplice mostra, ma con un processo trasformativo che porta in sé barlumi di magia, dove le opere concettuali dell’artista indiano Anish Kapoor trasmutano e dialogano con la razionale simmetria di spazi del palazzo rinascimentale. “Anish Kapoor. Untrue Unreal”, mai titolo potrebbe essere più calzante per l’esposizione che incanterà Firenze fino al 4 febbraio del prossimo anno: un viaggio in tutto ciò che è imperscrutabile e illusorio, antico fardello della condizione umana.

Sfruttando la dicotomia vita/morte, razionale/irrazionale, l’artista esalta la poetica degli oggetti, per non concentrarsi sul mero significato: “Se l’arte ha a che fare con qualcosa, è senz’altro la trasformazione. Si tratta di cambiare stato alla materia […] attraverso uno strano processo di manipolazione di cui non saprei come parlare”.

Osare

La parola chiave di Kapoor è infatti osare, sperimentando nuovi modi di vedere e concepire la realtà al pari di un novello alchimista. Le sue opere trascendono la materialità, rendendo cera, siliconi, acciaio riflettente e pigmenti dei simboli che permettono di guardare oltre la sterile realtà delle cose. E, se nell’arte tutto è finzione illusoria, portare un oggetto al di là dell’essere è un progetto ambizioso: un mondo dove vero e falso si dissolvono, aprendo le porte all’eventualità dell’impossibile. Già dalla prima sala con “Svayambhu” – in sanscrito “sorto da sé” – si viene catapultati in una riflessione tra vuoto e materia con un enorme blocco di cera, che riproduce un vagone ferroviario stilizzato, di un truculento rosso vivo – a richiamare sia metafore di nascita che i massacri più sanguinari di guerra, in un’eterna lotta tra Eros e Thanatos.

Il colore rosso

L’uso del rosso in tutte le sue sfumature è un tratto distintivo dello scultore, perché simboleggia in India sia il colore matriarcale della sposa sia un torbido, passionale e violento mondo interiore. Come un moderno Pigmalione, Kapoor dà poi vita a una colonna dagli infiniti tratti metafisici, “Endless Column”, esplicito riferimento alla famosa scultura “La colonne sans fin” di Constantin Brâncuși. Metafora del legame tra terra e cosmo, Kapoor utilizza il pigmento rosso ai bordi per nascondere la colonna e renderla altro da sé, arrivando al cielo e trascendendo ogni fisicità: “Quando si realizza un oggetto e lo si riveste di pigmento, quest’ultimo cade a terra creando un alone intorno all’oggetto stesso. Possiamo quindi paragonarlo a un iceberg: la maggior parte dell’oggetto è nascosta, invisibile. E così mi sono interessato sempre di più all’oggetto invisibile. Una parte sporgeva nel mondo, ma era il resto a essere veramente interessante”.

Il vuoto

Tuttavia, il fulcro nevralgico della mostra è il “Non-Object Black” (2015), in cui l’artista utilizza il Vantablack, un materiale altamente innovativo costituito da nanotubi in carbonio capaci di assorbire più del 99,9 per cento della luce visibile, così da rendere invisibili i contorni dell’oggetto e far scomparire la terza dimensione. Non si può che venire affascinati da questo buco nero (un “Supermassive Black Hole”, canterebbero i Muse) apparso in un così compunto contesto fiorentino, un abisso profondo che spinge a guardarsi dentro. La sensazione è di un “vuoto pieno” dal contrasto spiazzante (che rimanda allo stesso tema del film premio Oscar 2023 “Everything Everywhere All at Once”): “Il vuoto è in realtà uno stato interiore. Ha molto a che fare con la paura, in termini edipici, ma ancora di più con l’oscurità. Non c’è niente di più nero del nero interiore. Questo vuoto non è qualcosa privo di importanza. È uno spazio potenziale, non un non-spazio. Il vuoto è una condizione di inizio, non di fine”.

Fonte: Il Sole 24 Ore