Anoressia, un’indagine sull’idea di femminilità

Anoressia, un’indagine sull’idea di femminilità

Una ragazzina di quattordici anni e trenta chili. Quasi morta di fame e affamatissima. Ossessionata dal cibo e incapace di metterselo in bocca, anche solo di toccarlo, come ci fosse «una forza magnetica invertita». Così Hadley Freeman, scrittrice e giornalista del «Sunday Times» ricorda sé stessa. «Era un caldo giorno di primavera a Londra quando mi smarrii completamente e la mia mente e il mio corpo finirono posseduti da un’estranea. Fu la trasformazione di un minuto, una raccapricciante perdita dell’innocenza; bastò un singolo commento e la mia visione del mondo cambiò per sempre» scrive in Brave ragazze. Una storia di anoressia. Il memoir ripercorre la sua malattia, esplosa nel 1992, e quella di alcune donne che ha incontrato nei nove lunghi ricoveri che le hanno mangiato la giovinezza. Ai ricordi intreccia un lavoro giornalistico che contempla la disanima degli studi scientifici recenti e interviste agli specialisti di anoressia, compresa quella che, infine, l’ha curata.Un’analisi che finisce per identificare la nostra idea di femminilità come una delle cause profonde di questo male per il quale non esistono medicine e che appare durante l’adolescenza, colpendo per il 90% le femmine.Poco importa quale sia stato l’innesco: «Quando sei vulnerabile il mondo intero è un fattore precipitante», osserva. Freeman si descrive come una bambina sempre alla ricerca di approvazione: «Nelle conversazioni, mi logoravo per lo sforzo d’intuire la risposta che l’interlocutore si aspettava da me anziché dire ciò che pensavo veramente, al punto che non sapevo più quale fosse il mio reale pensiero». Non popolare, ma amica di tutti, perché accomodante. «Ero compiacente, allegra e del tutto incapace di esprimere i miei veri sentimenti. A parte il terrore del sesso, ero la fidanzatina dei sogni» ricorda.Brava a scuola, precisa, conformista, non scontentava nessuno. Per calmare l’ansia e la rabbia che talvolta l’assillavano, quando era piccola si toccava. «Un giorno un’insegnante se ne accorse, mi seguì – temo che capitasse spesso – e mi beccò nel gabinetto con la manina esile e irrequieta tra le gambe. ”Le brave ragazze non fanno certe cose!” esclamò in un sussulto» portandola in infermeria. «Ecco imparata un’altra lezione: il piacere era scandaloso». Una delle lezioni che quasi tutte le ragazzine a un certo punto colgono: «le loro emozioni vengono sempre dopo quelle degli altri e la sessualità dev’essere solo negata (cosa ben diversa è dire loro che dovrebbero irradiare erotismo per il piacere altrui, un monito che ricevono costantemente). Tutti i bisogni, i desideri e gli appetiti vanno repressi: questo il cardine fondante della femminilità» anche prima di Santa Vilgefortis, figlia del re del Portogallo che visse tra il 700 e l’anno mille e si oppose al matrimonio con l’uomo scelto dal padre smettendo di mangiare.Freeman e le sue compagne d’ospedale avevano orrore del corpo delle donne: «Carla, durante una seduta di terapia di gruppo disse che aveva smesso di mangiare dopo che un parente l’aveva definita femminile; la sola parola ci fece sussultare, immaginando fianchi rotondi, seni penduli, un sedere cascante. Quante riserve di grasso! Cosa c’era di più allusivo alla brama e all’ingordigia di un corpo femmineo?», ricorda. La paura di un mondo percepito come ostile era un altro fattore comune. Un mondo che l’anoressia sa ridurre all’unico imperativo di non mangiare e che si sfida con una volontà furiosa.«Se la malattia emerge durante l’adolescenza – come nel mio caso – è perché le ragazze non sono ancora diventate adulte, e non vogliono diventarlo. Ci rifiutiamo di sanguinare e strizziamo il seno contro il petto ossuto. Sesso? Non se ne parla. In buona parte c’entra anche la paura. Insieme alla pura rabbia. Guardiamo alle scelte che le madri moderne devono compiere – li chiamano compromessi, ma sappiamo bene che sono sacrifici – e non vogliamo saperne nulla. Il punto di arrivo di tanta fatica negli studi, di tutta quella dedizione perfezionista sarebbe la dimensione domestica? Ci dicono che il mondo è cambiato, eppure sembra che l’unica conseguenza sia che ora le nostre madri devono trovarsi un lavoro e comunque continuare a fare tutto quello che hanno sempre fatto: cucinare e pulire e soffiare il naso ai propri figli e adulare il marito tutti i giorni, tutto il giorno. Nel corso degli anni a essere cambiato è stato il lavoro delle donne inteso come professione, non quello emotivo».Anche all’esterno non va meglio: «Fuori di casa lo vediamo che significa essere una donna: essere scrutata, accettare di meno, lasciare che la nostra intelligenza venga sussunta dall’ego di maschi mediocri, rassegnarsi all’invisibilità una volta compiuti i quarant’anni. Vediamo gli standard inarrivabili imposti alle donne: sii sveglia, ma non troppo ambiziosa; mostrati perfetta, ma non cedere alla vanità; non invecchiare, ma niente chirurgia plastica; rimani snella, ma non ti fissare con le diete; sii brillante, ma non più degli uomini che ti circondano; sii accomodante e senza esigenze personali. Ed è spaventoso. Assistiamo all’ipersessualizzazione femminile, a quella pretesa di trovarci sempre pronte all’uso come bambole gonfiabili» osserva l’autrice, che prende anche in considerazione il ruolo della moda, dei social e del porno, trovandoli però secondari e comunque un sottoprodotto dell’idea di femminilità radicata nella nostra cultura.

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Hadley Freeman

Brave ragazze.

Una storia di anoressia

Fonte: Il Sole 24 Ore