
Aronofsky riscrive le regole del crimine
Chiunque abbia frequentato Rivington Street o Avenue D negli anni Novanta, conosce i cromatismi crudi, i diner, i parcheggi, gli edifici in fiamme del “più grande mercato di droga al dettaglio del mondo”, un quadrangolo mortale di lettere capovolte, marciscenti, dove Darren Aronofsky sceglie di fare ritorno, venticinque anni dopo aver girato π – Il teorema del delirio tra i fabbriconi di Bushwick, Brooklyn, con gran parte della stessa troupe. “La New York degli anni Novanta era una specie di picco di umanità” ci dice candidamente. “L’Unione Sovietica era crollata, l’11 settembre non era ancora successo, la più grande minaccia era il Millennium Bug e il nostro presidente era al centro delle polemiche perché forse aveva una relazione extraconiugale. Non lo sapevamo ancora ma, quegli anni, catturavano l’ultimo momento di innocenza di una grande potenza”.
Che fine ha fatto, allora, l’ottimismo americano? Se lo chiede Una Scomoda Circostanza – Caught Stealing, l’adattamento di Aronofsky (per Sony Pictures) del romanzo di Charlie Huston del ’98 su un ex fenomeno del baseball diventato barista (Austin Butler) con un gatto lasciatogli in custodia dal vicino punk-rock (Matt Smith). Di lì a poco, Hank Thompson si ritrova un manipolo di gangster alle calcagna: un’allegra brigata etnografica di bande criminali, mobsters e sicari ebrei ortodossi (interpretati da Liev Schreiber e Vincent D’Onofrio), intervallata da cene di Shabbat, lezioni di yiddish e un elegiaco, lontanissimo East Village. Il 1998 non è stato solo un anno ma una visione del mondo, una configurazione di possibilità e minacce, fotografate, disegnate e ritagliate per gli occhi dal direttore della fotografia Matthew Libatique, lo scenografo Mark Friedberg e il montatore Andrew Weisblum.
Per Austin Butler (Elvis), il ruolo è il completamento di un’improbabile profezia artistica. A dodici anni, scelto in un film studentesco nel ruolo di un cane che si trasforma in ragazzo, aveva incontrato un sedicente regista il cui filmmaker del cuore era proprio Darren Aronofsky. “Requiem for a Dream è così diventato il mio rito di iniziazione al cinema” racconta sorridente. “Sin da bambino, avevo questo tarlo in testa: prima o poi lavorerò con Darren, prima o poi lavorerò con Darren…”. La fisicità di Butler ha richiesto una taratura attenta, tra eroe d’azione e un Buster Keaton membruto. “Ho fatto training con l’allenatrice Julia Crockett; non mi ero mai reso conto di quanto comici o equilibristi si possa diventare, quando si scappa da sicari inferociti o ci si ubriaca perdutamente. Non a caso, amo il lavoro da clown. Vorrei imparare il mestiere del clown e lavorare in un circo, prima o poi”.
Dopo il debutto alla regia con Blink Twice, Zoë Kravitz porta la sua prospettiva sull’arte come scavo morale. “Nel film di Darren ho una piccola parte, sono la ragazza di Hank, ma da attrice e regista sono sempre più attratta dall’esplorazione del potere. Penso che l’arte non possa esistere senza empatia e senza rischio” riflette Kravitz.
Lo scenografo Mark Friedberg, che il regista caratterizza come un “filosofo designer”, è al suo terzo progetto con Aronofsky dopo Noah e The Whale. Ha collaborato con esperti di graffiti e pubblicitari per ricreare la vertiginosa New York urbana del ’98, ancora più fuorilegge e fuori di testa quando si incendiano le note della band post-punk britannica Idles, una collisione temporale descritta dal frontman Joe Talbot come “un sogno lucido”. Gli Idles non solo hanno contribuito con quattro brani originali, ma hanno registrato l’intera colonna sonora composta da Rob Simonsen.
Fonte: Il Sole 24 Ore