
Banca Mondiale: «La crisi ambientale è una crisi economica»
WASHINGTON – Richard Damania, capoeconomista della Banca Mondiale per la vicepresidenza Our Planet, è l’autore principale del rapporto “Reboot Development: The Economics of a Livable Planet”, che già nel titolo sottolinea la necessità di ripensare il rapporto tra ambiente e prosperità. «Senza aria pulita, acqua pulita e terreni fertili, non c’è sviluppo e l’idea che per i Paesi poveri prima venga la crescita e solo dopo l’ambiente è sbagliata», afferma Damania nel suo ufficio di Washington.
Nel vostro rapporto sostenete che la crisi ambientale è in realtà una crisi economica. Cosa intendete?
Cominciamo dall’inquinamento atmosferico: ogni anno uccide più persone di tutte le guerre e di tutte le forme di violenza. Non solo uccide. Se si respira aria cattiva, secondo solide prove empiriche, la produttività del lavoro scende. Ci sono effetti sulle capacità cognitive. Ed è possibile calcolare i costi economici. In Europa, circa l’1% del Pil viene perso a causa dei livelli di inquinamento. Immaginate cosa succede in altre parti del mondo, come Africa e Asia. Passiamo all’acqua: l’acqua sporca fa ammalare le persone e riduce la produttività. Le foreste: non servono solo per la biodiversità e la cattura di anidride carbonica. Il nostro rapporto dimostra con nuove prove, che le foreste sono un’infrastruttura naturale, un bacino idrico simile a una diga. Immagazzinano acqua. Se c’è una foresta a monte, a valle, il suolo sarà più umido. Poiché facciamo affidamento sull’umidità del suolo, sull’agricoltura alimentata dalla pioggia per il 75% del cibo che mangiamo, questo è davvero importante, ma completamente ignorato dalla letteratura. E ha un valore economico. Non sono solo problemi ecologici, sono problemi economici.
A proposito di foreste, la normativa Ue punta a prevenire l’importazione di prodotti associati alla loro distruzione. Sembra difficile opporsi, ma Indonesia e Brasile la respingono con forza. Cosa succede?
Guardiamo a una questione più ampia. Il commercio è amico o nemico dell’ambiente? Da un lato, nelle foreste e attorno a loro vengono prodotti generi alimentari come soia o carne di manzo. Quindi più commercio c’è, più aumenta la domanda, più le foreste cadono, giusto? È qui che il commercio è nemico dell’ambiente. Ma d’altro canto, molti beni vengono prodotti in modi più efficienti e causando meno danni ambientali in Paesi diversi da quelli di consumo e nel nostro rapporto dimostriamo che il commercio ha ridotto la sua impronta ecologica.
A settembre, l’Istituto di ricerca sul clima di Potsdam ha dichiarato che l’acidificazione degli oceani è entrata nella zona di rischio: 7 dei 9 limiti planetari sono già stati superati. Quali sono le conseguenze pratiche?
Dobbiamo chiederci: chi su questo pianeta soffre a causa della cattiva qualità dei terreni? Perché se la tua terra è cattiva, i tuoi raccolti non saranno molto produttivi. L’80% delle persone che vivono in Paesi a basso reddito ha terra cattiva, aria cattiva, acqua cattiva. Nei Paesi ad alto reddito solo l’1%. Detto questo, nemmeno i Paesi ricchi sono fuori pericolo. Il 90% della popolazione mondiale vive in condizioni in cui almeno una tra terra, aria o acqua è cattiva. Nessuno è davvero al riparo. Il fatto che l’80% delle persone nei Paesi a basso reddito abbia terreni, aria e acqua scadenti mette in discussione l’idea antiquata diffusa dagli economisti, secondo cui i Paesi poveri siano troppo poveri per preoccuparsi dell’ambiente, che debbano danneggiare l’ambiente, far crescere la propria economia e solo dopo ripulire. Noi dimostriamo che questo è palesemente falso, perché se non hai aria pulita, se non hai acqua pulita e se i tuoi terreni non sono fertili, non avrai sviluppo.
L’impatto ambientale dell’estrazione di minerali essenziali per la transizione energetica è dibattuto: alcuni sostengono che sia dannoso. A quali conclusioni siete giunti?
Gran parte dell’attività mineraria ha un impatto molto pesante, ma il modo in cui si estrae può peggiorare o migliorare la situazione. Considerando le miniere formali, circa il 4-5% dei minerali critici sembra trovarsi in aree che possono essere definite ad alto rischio per foreste, biodiversità e così via. C’è un chiaro trade off. Queste aree stanno assistendo a un aumento dei redditi, ma anche a danni ambientali. Se riusciamo a svolgere l’attività mineraria in modo migliore, con misure di sicurezza, norme e regolamenti, almeno ridurremo al minimo i danni. Inoltre, il confronto va fatto tra i minerali critici e l’alternativa attuale.
Fonte: Il Sole 24 Ore