
Big tech Usa contro l’Italia: no all’Iva sui social network
Il “rito ambrosiano” sulle questioni fiscali delle big tech americane – il “patteggiamento” sulle tasse in cambio dell’archiviazione penale – finisce definitivamente con un ricorso tributario avviato da tre colossi ancora nel mirino dell’ufficio milanese e, a sorpresa, con la richiesta di un parere consultivo dell’Italia indirizzato alla Commissione europea.
Il ricorso alla Corte di giustizia tributaria
Meta, Linkedin e X – come anticipato ieri dall’agenzia Reuters in una corrispondenza dall’Italia – hanno ufficialmente aperto le ostilità contro gli accertamenti della Guardia di finanza e dell’agenzia delle Entrate in materia di Iva, in totale 1,14 miliardi di euro di presunta evasione (887 milioni Meta, 140 Linkedin, 12,5 “X” quando ancora si chiamava Twitter). Decorsi i termini per l’adesione all’accertamento fiscale, le big-tech accusate dalla procura di non aver versato l’Iva sulla permuta dei dati sensibili dei propri utenti (cessione gratuita in cambio di servizi di intermediazione digitale) hanno deciso di far valere le proprie ragioni dinanzi alla Corte di Giustizia di primo grado.
Il fronte aperto dall’ufficio milanese sulle imposte indirette non versate dal 2015 in poi – le annualità precedenti sono prescritte – è in prospettiva così deflagrante da aver indotto le big-tech a smettere di staccare assegni alla Procura di Milano (dal 2013 ad oggi circa 4 miliardi di euro, ma sempre e solo a titolo di imposte dirette sul reddito) e di scegliere il parterre di un’aula di giustizia per far statuire l’insussistenza del debito tributario contestato.
La contromossa europea dell’Italia
Una mossa che, per quanto ampiamente prevedibile e annunciata, ha innescato anche la reazione “in autotutela” dell’Italia, che – sempre secondo Reuters – si sta preparando, come prossimo passo, a richiedere un parere consultivo alla Commissione Europea e in particolare al Comitato Iva di Bruxelles.
Non è infatti mistero che lo stesso Comitato con il parere 958/2018 (si veda Il Sole 24 Ore del 12 aprile) aveva escluso l’imponibilità della asserita permuta tra la piattaforme social e i suoi utilizzatori: i navigatori del web non avrebbero infatti la consapevolezza di negoziare con la controparte virtuale, facendo venir meno il presupposto della permuta contestata ai fini Iva. In particolare secondo il Vat Commitee – che a breve sarà chiamato a rivalutare questa conclusione di sette anni fa – l’autorizzazione concessa dall’individuo «rientra nell’ambito della gestione di ciò che costituisce la sua proprietà privata. L’individuo non intende svolgere un’attività economica e non impiega i mezzi che caratterizzano tale attività. Pertanto, la fornitura di dati da parte dell’utente di un servizio IT offerto senza corrispettivo monetario non costituisce un’attività economica e non costituisce una prestazione di servizi imponibile». Inoltre, aggiungeva acutamente il Vat Commitee, «i dati per i quali viene concesso l’utilizzo variano in quantità e qualità da un utente all’altro, ed è persino possibile che l’utente fornisca al fornitore solo dati falsi. Per questo motivo, non è possibile stabilire un collegamento così diretto, che è una condizione affinché l’operazione possa essere considerata imponibile».
Fonte: Il Sole 24 Ore