C2C Festival, Torino fuori dalla comfort zone

C2C Festival, Torino fuori dalla comfort zone

Può piacere oppure no. Può confondere con il suo eclettismo, oppure schiarirti le idee su dove stanno andando le avanguardie musicali. Può coinvolgerti fino a perdere il senso del tempo, o iniettarti un senso di straniamento. È difficile definire il C2C Festival di Torino, forse una delle manifestazioni musicali più audaci del panorama italiano. Ma credo si possa dire che il suo maggior pregio sia quello di portare gli spettatori fuori dalla zona di comfort: qui non si arriva per vedere set prestabiliti, per seguire un crescendo – come succede in quasi tutti i festival – dai gruppi minori fino al gran finale. È piuttosto un flusso incostante, che procede tra picchi techno e note eteree, tra grandi nomi dell’elettronica e nuovi ricercatori del pop, tra chitarre e sintetizzatori, in cui bisogna immergersi e lasciare che la musica faccia il suo corso: entusiasmarti, farti ballare, incuriosirti o anche infastidirti un po’. Questa edizione, la ventitreesima, in scena a Torino dal 30 ottobre al 2 novembre, la prima orfana del suo fondatore Sergio Ricciardone (scomparso a marzo), ha confermato la direzione scelta da tempo: a cominciare dalla collocazione temporale che ha visto il C2C andare in scena negli stessi giorni di Artissima, la fiera d’arte contemporanea. Entrambi diffusi per la città, ma al contempo con il cuore pulsante in zona Lingotto, come a voler raccontare – tra installazioni artistiche e performance musicali – che l’anima industriale di Torino è stata capace di evolversi in qualcosa di culturalmente rilevante. Così i due eventi si parlano, talvolta condividono il pubblico, ed entrambi provano a guardare oltre lo stato dell’arte, verso nuove evoluzioni e sperimentazioni.

L’intero programma – quest’anno particolarmente imponente, arricchito da eventi musicali alle OGR, altro patrimonio della Torino industriale, e conversazioni sulla musica al Teatro Regio (tra gli ospiti anche Andrea Laszlo De Simone) – ha composto un mosaico sonoro che al Lingotto Fiere ha trovato la sua massima espressione: due serate dense, la seconda affidata a protagonisti dell’elettronica mondiale come A.G. Cook, Four Tet e Floating Points; ma già dalla prima serata del 31 ottobre si è rivelata con chiarezza l’identità del festival – un’esperienza che è insieme concerto, rito e indagine sul suono. Tra le performance che hanno lasciato il segno, quella del compositore cileno Nicolas Jaar insieme ad Ali Sethi, cantante e romanziere nato in Pakistan: il duo, per la prima volta in Italia, ha dato vita a una performance stratificata, in cui le trame elettroniche di Jaar si sono fuse con il canto di Sethi, ispirato a un’antica forma poetica, il ghazal, portata dai mistici arabi fino al subcontinente indiano. Il risultato è stato un’apertura sognante e sospesa, quasi un invito alla resa: mettersi comodi, lasciarsi attraversare dai suoni, prepararsi a esplorare nuovi mondi.

Gli altri mondi poi sono arrivati, e hanno preso forme dissonanti e sorprendenti: lo show più inaspettato, quello della giovane cantante nippo-canadese Saya Gray, che ha portato sul palco chitarre e batteria, alla vecchia maniera, e ha aperto le danze con una sorta di country d’avanguardia un po’ sbilenco, per poi modulare i suoi falsetti tra folk, r’n’b e lampi di hard rock. Surreale, divertente e divertita, Saya ha raccolto molti applausi, forse proprio per quell’assenza di linearità stilistica che è diventata, oggi, una forma di libertà, e sicuramente ha dato un assaggio delle molteplici direzioni che può prendere il pop, al di là delle conquistatrici di classifiche come Chappell Roan o Sabrina Carpenter. Si è virato su atmosfere più dolci e malinconiche con Blood Orange, progetto artistico del musicista e compositore inglese Devonté Hynes (nominato ai Grammy per il suo progetto di musica classica Fields): mentre le ore si facevano piccole (intorno all’una di notte), l’artista ha illuminato le navate del Lingotto con melodie contaminate dal jazz, dando spazio anche al suo ultimo disco (Essex Honey) interamente dedicato alla madre recentemente scomparsa.

Troppo intimista? Bastava attraversare il grande corridoio illuminato da fasci irraggianti che trasformavano le pareti di cemento in cieli stellati, per arrivare al palco “alternativo”, più piccolo e al contempo concentrato sull’attitudine puramente elettronica del festival, per immergersi in scariche ritmiche, bassi pulsanti e sequenze ipnotiche che facevano vibrare il pavimento. Qui la musica si faceva fisica, quasi tattile: la cassa dritta scandiva il tempo, mentre le luci stroboscopiche disegnavano geometrie nel fumo: tra gli artisti presenti, Barker, producer inglese di base a Berlino e nome simbolo del Berghain, e Skee Mask, produttore bavarese, che ha costruito un set ipnotico dove la techno si piegava in vortici e dissolvenze.

Fonte: Il Sole 24 Ore