Cambiamento climatico, servono più prove per dimostrare l’inadempienza dell’Italia

Cambiamento climatico, servono più prove per dimostrare l’inadempienza dell’Italia

Strada sbarrata per le azioni climatiche contro l’Italia. Almeno per ora. Con due decisioni depositate il 7 maggio e rese pubbliche il 30, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato inammissibili due distinti ricorsi che avevano al centro gli effetti negativi sui ricorrenti causati dal mancato rispetto, da parte dell’Italia e di altri Stati, della Convenzione sul clima del 1992 e dell’Accordo di Parigi del 2015.

Il primo ricorso: la tempesta Vaia

In un caso (De Conto contro Italia e altri 32 Stati, ricorso n. 14620/21), la ricorrente richiamava i danni provocati dai cambiamenti climatici i cui effetti erano stati visibili anche con la tempesta Vaia che aveva colpito diverse regioni italiane nel 2018. A suo avviso, accanto ai danni provocati a infrastrutture e case, vi erano state conseguenze dovute allo stress provocato dai disastri naturali, che aumentava in relazione alla prospettiva di vivere in un clima sempre più caldo per il resto della propria vita. La ricorrente ha fornito anche delle perizie mediche e ha così invocato la violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea che assicura il diritto alla vita, dell’articolo 8 relativo al diritto al rispetto della vita privata e familiare, dell’articolo 13 sul diritto a un ricorso effettivo, nonché dell’articolo 14 sul divieto di discriminazione.

La Corte riconosce che spettava all’Italia adottare misure per tutelare i diritti convenzionali della ricorrente, escludendo invece di poter decidere sul ricorso riguardante gli altri Stati che non avevano alcuna giurisdizione fuori dal proprio territorio. Così, la Corte, con riguardo all’azione contro gli altri Stati, ha dichiarato il ricorso inammissibile.

Per quanto riguarda il merito dell’azione contro l’Italia, la Corte ha stabilito che, nel caso di azioni climatiche, per poter invocare la violazione di una norma convenzionale è necessario dimostrare l’alta intensità dell’esposizione della presunta vittima agli effetti avversi dei cambiamenti climatici e il bisogno pressante di assicurare la protezione dell’individuo, con l’aggiunta che la soglia per individuare l’esistenza di questi due criteri è particolarmente alta. Sull’impatto dei cambiamenti climatici sulla salute mentale, la Corte ha ritenuto che i certificati medici presentati non fornivano alcuna indicazione circa il collegamento tra stato di salute ed esposizione agli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Ad esempio, non è stato dimostrato che lo stato di ansia era collegato alle preoccupazioni della ricorrente per i cambiamenti climatici o che la donna fosse personalmente esposta a detti effetti negativi. Così, non sono stati forniti elementi per attestare che vi fosse una pressante necessità di garantire la protezione individuale dai danni che il cambiamento climatico avrebbe avuto sul godimento dei diritti umani.

Fonte: Il Sole 24 Ore