In una nota alla nuova traduzione di «Terra sonnambula», il capolavoro di Mia Couto, l’autore chiarisce che non è un romanzo sulla guerra, ma «una storia che riguarda gente in viaggio, mossa dall’assoluta urgenza di raggiungere un’altra sponda». È un libro sui sopravvissuti, i «meno vivi»
Fonte: Il Sole 24 Ore
La mostra “Extraordinary” crea un ponte affascinante tra il lavoro di Geene e la collezione storica del Museo Mesdag. Fondato dal celebre pittore Hendrik Willem Mesdag e sua moglie, l’artista Sientje Mesdag-van Houten, il museo è un tempio dell’arte del XIX secolo, con opere che spaziano dai capolavori della Scuola di Barbizon, come quelli di Daubigny e Millet, alle straordinarie vedute della Scuola de L’Aia e alle suggestive opere di Antonio Mancini.
I Mesdag erano noti per la loro rappresentazione della costa di Scheveningen, catturandone la luce e l’atmosfera unica. Mentre queste opere riflettono un approccio romantico e tradizionale, Geene, con uno sguardo moderno e analitico, utilizza la fotografia per indagare la stessa natura, ma con un’ottica investigativa.
Il Museo Mesdag: una finestra sull’arte e sulla natura
Dal 1887, la collezione dei Mesdag è esposta nel loro museo privato, mantenendo intatta l’atmosfera originale del XIX secolo. Le sale del museo, intrise di storia, ospitano capolavori e racconti di un’epoca passata, ma sono anche uno spazio ideale per esplorare l’arte contemporanea. La casa adiacente, che un tempo era la residenza della coppia, è oggi dedicata a esposizioni temporanee, come quella di Anne Geene, e rappresenta una testimonianza vivente del dialogo tra tradizione e innovazione.
Oltre alle opere d’arte, il museo offre anche la possibilità di esplorare alcune stanze storiche (affittabili), rendendolo un luogo di connessione non solo con l’arte, ma anche con la comunità.
Anne Geene e la natura: un invito alla riflessione
La mostra non si limita a presentare le opere di Geene, ma propone una riflessione profonda sulla nostra relazione con la natura e il processo di collezionismo. Come i Mesdag, anche Geene dimostra una grande passione per lo studio e la celebrazione della bellezza naturale, ma con un linguaggio che unisce ironia e scienza. La sua “visione giocosa della scienza” sottolinea il contrasto e la continuità con l’approccio romantico e tradizionale dei Mesdag, creando un dialogo che celebra la natura in tutte le sue forme.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Nelle sale il nuovo film di Ivano De Matteo con protagonisti Stefano Accorsi e Ginevra Francesconi, entrambi molto bravi in ruoli difficiliI punti chiave
Fonte: Il Sole 24 Ore
Così come i Canti Orfici sono stati definiti da Dino Campana “la giustificazione della mia vita” per Gianni Turchetta, già autore da giovane studente di una tesi sullo scrittore ora da docente universitario ordinario curatore del Meridiano dedicato all’opera completa del poeta di Marradi, potrebbe dirsi altrettanto.
Il progetto editoriale di Mondadori nasce innanzitutto dalla necessità di un’edizione il più possibile completa e condotta secondo criteri per quanto possibili unitari. Ambire per necessità a un’opera completa di Campana significa raccogliere in un unico volume, con un ampio corredo di apparati critico-filologici e di note ai testi, tutti gli scritti disponibili di Dino Campana, in un’edizione affidabile, che tenga conto consapevolmente di tutte le edizioni precedenti.
Il Meridiano
Un’edizione simile deve tenere conto soprattutto dei dati testuali ispirati oltre che alla poetica alle vicende drammatiche della vita dello scrittore. Era necessaria un’opera omnia di Campana, oltre che per la rilevanza riconosciuta dell’autore, anche per la difficoltà di reperire i testi: molte edizioni sono infatti da tempo indisponibili sul mercato. Nel Meridiano la centralità non poteva che spettare ai “Canti Orfici” la cui composizione si avvale delle correzioni fatte da Campana sulle copie di amici.
Variantismo
Un processo creativo noto come variantismo: così sperimentava possibili varianti per poi inserirli a penna, negli spazi disponibili. Ma è intenzione di Turchetta fare emergere la qualità di scrittura di Campana, superando la fama consolidata che lo vuole confuso nella sua ossessione variantistica, frutto di uno squilibrio psichico. L’internamento in manicomio, in tempi in cui era una macchia incancellabile, è stato il motivo per il quale a lungo gli è stato negato lo status di scrittore autentico e originale.
Turchetta invece condivide il punto di vista del filosofo Michel Foucault, ossia “dove c’è opera non c’è follia”, nella stesura di “Campana. L’opera in versi e in prosa”, ( pagg. 1780, euro 80, Mondadori editore). Fin dalla argomentata introduzione, Turchetta sostiene che non c’è coincidenza fra la sua poesia e la follia, smontando il cliché del poeta dai limitati mezzi espressivi, diventato personaggio come certe rock star solo a seguito di noti episodi esistenziali.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Gli spettatori, spiega Doran, non andaranno solo ad ascoltare una conferenza o a assistere a uno spettacolo, ma anche a visitare (o forse “vivere”) i luoghi della giovinezza di Wilde («nella biografia degli scrittori si tende a sottovalutare i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, si parla sopratutto dell’università- dice Doran – io invece credo che siano anni formativi importantissimi, capaci di determinare la vita e l’opera»), che aggiungeranno emozione e comprensione all’opera ascoltata. Per seguire alcune rappresentazioni (brevi ed itineranti) si dovrà anche prendere la barca e raggiungere Devenish Island, un’isola disabitata dove svettano le rovine di un’abbazia del VI secolo che custodiva da tomba di San Mo Laisse, uno dei dodici apostoli d’irlanda, che si ritiene sia stato il fondatore del monastero. Un’isola battuta dal vento, gelido in questa primavera incipiente, dove la maggiore usura delle decorazioni in bassorilievo sulle rovine indica là dove questo soffia più spesso.
L’altra tappa imprescindibile per chi volesse visitare i luoghi di Wilde è Dublino, dove è nato al numero 21 Westland Row, il 16 ottobre 1854, per poi trasferirsi quando aveva 8 mesi lì vicino, al numero 1 di Marrion square, in una casa costruita nel 1760 che guarda sul bel parco al centro della piazza, dove si affaccia anche la galleria nazionale, con il suo Caravaggio (la cattura di Cristo), il suo Vermeer (donna che scrive una lettera), i fiabeschi dipinti su vetro di Harry Clarke, l’Incontro sulle scale della torre di Frederic William Burton, i dipinti di John Butler Yeats, fratello di William, e del patre John, in particolare il ritratto che fece di suo figlio, il poeta. La casa, dove esercitò il padre di Wilde, otorinolaringoiatra, archeologo e scrittore i viaggi, ela madre, Lady Jane detta Speranza, scriveva le sue poesie e intratteneva gli amici nel suo famoso salotto, è oggi visitabile, ed è sede dell’AMerican college Dublin, un’università specializzata in scrittura creativa. Le librerie usate dalla famiglia sono ancora in uso, restano i pavimenti di legno di quercia, i bassorilievi dello scoltore danese Bertel Thorvaldsen, riportate da Speranza nel 1860 durante uno dei suoi viaggi in Scandinavia. Suggestive le antiche biblioteche dove Wilde probabilmente si recò: la tardorinascimentale Marshes Library, fondata nel 1907, dove non si è trovata traccia del suo passaggio, ma dove un suo caro amico (solo fino al processo per omosessualità), Bram Stoker, consultò una mappa della Transilvania, e dove si tengono interessanti mostre dei preziosi 80 incunamboli e 25mila libri presenti, e quella del Trinity College, fondata nel 1592, dove il commediografo studio prima di andare al Magdalen college di Oxford, e dove si può ammirare il famoso book of Kells, capolavoro della cristianità irlandese: un manoscritto decorato da monaci di cultura celtica intorno all’800.
Un’esposizione in occasione dei 125 anni della morte di Wilde è in corso al Moli ( Museum of Literature Ireland ), il nuovo museo della letteratura irlandese, aperto nel 2019 nella Newman House, antica sede dell’Università Cattolica di Dublino, dove studiarono Joyce e Edna O’Brien. Qui, in un video, un gruppo di scrittori Lgbtqi+ legge passi dal De profundis, la lunga lettera che Wilde scrisse dal carcere, dove era stato incarcerato per il suo amore proibito, al suo giovane amante Lord Alfred Douglas. Perso il gagliardo brio della giovinezza, scriverà: «Soffrire è un unico, lungo momento. Non possiamo dividerlo per stagioni, ma soltanto renderci conto dei suoi modi e calcolarne i ritorni».
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Fonte: Il Sole 24 Ore
La complessità della Resistenza è stata affrontata negli anni attraverso ricerche, monografie, studi che hanno aperto polemiche, altri che hanno colmato lacune (senza contare la dimensione narrativa, di cui nella pagina accanto Gabriele Pedullà fornisce un contributo per quel che riguarda l’Europa: si aggiunge all’antologia di racconti della Resistenza italiana da lui ideata nel 2005).Il libro curato da Filippo Focardi e Santo Peli racchiude i tanti aspetti che caratterizzarono la lotta partigiana, dunque è intelligente nella proposta e utile nel respiro. Si compone di sedici saggi che esplorano, in maniera agile e puntuale (con brevi riferimenti bibliografici alla fine di ciascun capitolo, integrati da un apparato di note), l’esperienza resistenziale: dai protagonisti della lotta armata ai loro nemici, dall’apporto del Sud a quello delle donne, dalla questione etica della guerra partigiana alla narrazione che ne è seguita e alla storiografia. Senza trascurare la Resistenza all’estero, l’approccio nei manuali scolastici, le implicazioni post 1989.
Una disamina estesa nella quale chi legge trova gli strumenti per approfondire quello che più gli interessa, con i curatori che nell’introduzione rimarcano l’intento dell’opera: sottrarre il discorso sulla Resistenza all’edulcorazione che ne è stata trasmessa insistendo sugli «aspetti unitari, nazional-patriottici», per ricondurlo invece alla «difficoltà e drammaticità» di una minoranza che si è armata, spesso non avendo mai preso un’arma in mano, e ha vissuto mesi cruenti, in una guerriglia con poche certezze e molti contrasti. Strutturare le spinte alla ribellione, ricorda nel suo saggio Luca Baldissara, non fu semplice, il salto di qualità dalle bande a un esercito (il Corpo volontari della libertà) coordinato da un comando si compie solo nel giugno del ’44, un’estate nel corso della quale la lotta cambia marcia. Le quattro giornate di Napoli, a quell’altezza, sono lontane, e così anche le rivolte di altre città del Sud contro l’occupante tedesco. A complicare la risalita degli Alleati, lenta e sanguinosa, sopraggiunge l’inverno, nemico non meno temibile, mentre si susseguono i rastrellamenti e la violenza selvaggia a ridosso della linea gotica. Tuttavia il punto di non ritorno è segnato, le direttive emanate dal Pci prima nel gennaio del ’45, poi il successivo 10 aprile preludono all’assalto definitivo.Saranno quasi 25mila le vittime civili dei nazifascisti, osserva Amedeo Osti Guerrazzi chiudendo il capitolo riservato a tedeschi e repubblichini, «senza contare gli internati militari morti nei Lager, i quasi 8mila ebrei, i partigiani e le partigiane uccisi in combattimento, i soldati del “Regno del Sud” caduti al fronte, le decine di migliaia di deportati per il lavoro forzato in Germania». Tra queste vittime ci sono ad esempio Caterina Martinelli, uccisa da una mitragliata nell’assalto ai forni, a Roma, nel maggio ’44, o Rita Rosani, partigiana triestina ammazzata con un colpo in testa da un fascista, o Norma Parenti, combattente seviziata e fucilata a Massa Marittima. Delle donne attive nella Resistenza si parla sempre più, si moltiplicano le singole biografie che restituiscono visibilità e merito alla loro battaglia e al loro sacrificio.Una partecipazione e un ruolo acclarati dalla storiografia, scrive Maria Teresa Sega nel dare spazio a momenti e protagoniste nell’esercito di Liberazione: «Staffette? Combattenti? Spesso entrambe le cose e molto altro: portaordini, collegatrici, portatrici, informatrici, sabotatrici, propagandiste, infermiere, vivandiere». La necessità di organizzarne la mobilitazione coincise, nel novembre ’43, con la nascita dei Gruppi di difesa della donna ad opera di rappresentanti dei partiti del Cln: un organismo territorialmente capillare unitario (che non sopravviverà in questi termini alla guerra: l’Udi raccoglierà le militanti di sinistra, il Cif le cattoliche). Anche per le donne il salto di qualità arriva nel luglio ’44, quando il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai) riconosce i Gruppi: nascono così le Volontarie della libertà, con l’addestramento all’uso delle armi in previsione dell’insurrezione. Non saranno poche le partigiane che andranno in montagna (basti pensare ad Ada Gobetti e al suo Diario partigiano, 1956) o con ruoli di primo piano in città (come quello di Teresa Mattei, la più giovane delle future Costituenti, a capo della brigata intitolata al fratello Gianfranco, a Firenze). Come è messo bene in luce nel saggio, patiscono il maschilismo dei partigiani e all’interno degli stessi partiti politici, ma lo respingono con forza e la consapevolezza di una subordinazione che non possono più accettare le induce a scrivere, già nell’atto di nascita dei Gdd, che «la donna non deve più essere trattata come un semplice oggetto. Ha una sua personalità, dà il suo contributo in ogni campo della vita sociale; deve avere diritto e deve sentire il dovere di intervenire nella costruzione del mondo». Nel dopoguerra questa convinzione si spegnerà, anestetizzata dal rientro nei ranghi della famiglia e della casa: bisognerà aspettare gli anni 70 e il femminismo per recuperare l’esperienza delle partigiane e scendere in piazza per i diritti. Non è un caso che Compagne, la raccolta di interviste di Bianca Guidetti Serra – staffetta nella Resistenza torinese e avvocata – sia uscito nel 1977 (ora appena ripubblicato da Einaudi): le testimonianze di quelle cinquanta donne della Resistenza torinese – quasi tutte di umili origini, tenaci e coraggiose – erano un esempio e un raccordo ideale tra passato e presente. La loro esperienza ci parla ancora.
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Filippo Focardi e Santo Peli
(a cura di)
Fonte: Il Sole 24 Ore
Lee è un americano alla soglia dei cinquant’anni, espatriato a Città del Messico dove passa le sue giornate in solitudine o con altri membri della piccola comunità americana presente in città. L’incontro con il giovane Eugene Allerton, però, lo porta a desiderare di stabilire una connessione decisamente più intima con qualcuno.
Diviso in vari capitoli, il film segue la relazione tra i due attraverso i giorni messicani e il viaggio che compiranno in Sud America alla ricerca dello yage, droga che a Lee interessa moltissimo per le sue proprietà in grado di incrementare la telepatia.
Come già dimostrato in ottimi film come “Suspiria” e “Bones and All”, Guadagnino gioca benissimo con il registro più visionario, sfiorando anche il genere horror in alcuni passaggi e dando vita a un’opera davvero affascinante e di grande intelligenza.
Se al centro c’è il tema del desiderio inespresso, dell’astinenza non soltanto legata alla tossicodipendenza, Guadagnino riesce a declinare tutto questo in una vicenda poetica e capace di essere a suo modo anche molto romantica.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Non è l’unico esempio di paziente lavoro dietro le quinte che in occasione della mostra ha permesso di ricomporre per la prima volta opere separate nel tempo. Due trittici di Duccio, creati insieme e con le stesse decorazioni esterne, sono di nuovo vicini. I sei pannelli del polittico Orsini di Simone Martini,con le scene del martirio di Cristo da un lato e l’Annunciazione dall’altro, ora conservati tra Parigi, Anversa e Berlino sono riuniti.
Martini fu l’indiscusso erede di Duccio, ammirato e celebrato per il suo virtuosismo ben oltre i confini della città, invitato persino a Avignone alla corte papale, dove conobbe Petrarca. I suoi quadri raccontano una storia con mille dettagli architettonici e paesaggistici, delineano i corpi sotto gli abiti e mostrano le emozioni sui volti.
Ambrogio Lorenzetti, fratello minore di Pietro, iniziò il suo apprendistato lavorando alla Maestà di Duccio e poi volò oltre, creando opere che pur con temi tradizionali, come l’Annunciazione del 1344, sono radicalmente nuove nella composizione, nell’uso dello spazio e nell’introduzione di elementi architettonici. Il messaggio di Gabriele e la risposta di Maria volano dalle loro labbra, scritti sulla tela.
Assolutamente unica poi la sua Madonna del Latte, che mostra un bambino del tutto vero, vivo e scalciante che ci guarda mentre stringe con la manina il seno nudo della madre per succhiare il latte. Sono passati pochi decenni, ma siamo lontani anni luce dalla rigida Madonna bizantina.
Dopo tanto splendore, la mostra finisce con una tragedia: l’arrivo della peste bubbonica, che uccise metà della popolazione di Siena, tra cui probabilmente i due fratelli Lorenzetti. Segnò l’inizio del declino della città, accentuato poi nel Cinquecento quando l’orgogliosa Siena fu conquistata e inglobata da Firenze. Per secoli l’arte senese è stata trascurata, ma questa trionfale, imperdibile mostra la riporta dove era nel Trecento: al centro del mondo.
Fonte: Il Sole 24 Ore
«Il primo volatile del quale sono andato in cerca fu il nottolone che nidificava nella valle. Il suo canto è simile a una perdita di vino che dall’alto cade a fiotti in una botte fonda e rimbombante, un suono odoroso, con un bouquet che lievita nel cielo silenzioso. Nell’accecante luce del giorno pare più sottile e secco, ma il tramonto lo ammorbidisce e gli dà corpo. Se un canto potesse avere un profumo, questo avrebbe l’aroma di uve pigiate, mandorle e legno tostato. Il suono fuoriesce senza che nemmeno una goccia si perda. L’intero bosco ne è colmo, poi cessa. All’improvviso, di colpo. Eppure l’orecchio l’avverte ancora: un’eco prolungata, in dissolvenza, un gocciolare avvolgente tra gli alberi tutt’attorno. Nell’immobilità, fra le prime stelle e i lunghi residui bagliori del giorno, il nottolone gioioso spicca il volo».
Quando si legge Il falco pellegrino di J.A. Baker, qui trascritto nella nuova, bella, precisa e ritmata versione di Aimara Garlaschelli, lo spazio si riempie di altro spazio, il cielo acquisisce nuove profondità e si scompone in infiniti piani, solcati a loro volta da traiettorie di volo, ma anche odorose e acustiche, solo ora evidenti alla coscienza, mentre negli anfratti del bosco divenuti visibili si svelano e si dispiegano vite mai messe a fuoco. Come i grandi occhi del rapace – che se in proporzione trasferissimo nell’uomo sarebbero «larghi sette centimetri e mezzo e peserebbero quasi due chili» e che vedono con una risoluzione otto volte maggiore della nostra – riescono a catturare qualsiasi punto in movimento e, fissandolo, possono «immediatamente renderlo più nitido, schiarendo e ingrandendo l’immagine», così fa la prosa «estatica, violenta, estasiata» (Robert Macfarlane) di questo straordinario e, nonostante tutto, ancora misconosciuto scrittore di natura. Nato nell’Essex, a Chelmsford, nel 1926 e lì morto nel 1987, confessa di essere arrivato tardi ad amare gli uccelli: «per anni li ho visti solo come una scossa ai margini della visione».
Poi, però, sono divenuti un’ossessione. Per dieci anni, in ogni momento libero, ha seguito in bici o piedi, nei boschi, nelle campagne, lungo le sponde degli estuari, i falchi pellegrini che cacciavano nei cieli della sua contea. Ha allenato progressivamente il suo sguardo a cogliere la meravigliosa varietà che brulica attorno a noi impercettibile, ha studiato i comportamenti dei volatili, cercato di capire le loro interazioni con gli altri animali, ha formulato ipotesi. Poi ha distillato milleseicento pagine manoscritte di osservazioni in un solo inverno descritto con meno di sessantamila parole, liriche e ipnotiche, fortemente evocative. Osservazioni che hanno la precisione di un naturalista e l’afflato di un poeta. «La percezione del naturale è portata a un’intensità sovrumana, una profusione sensoriale attuata da una prosa febbricitante» nota Garlaschelli.
«Fra tutte le cose, la più difficile è vedere ciò che è davvero lì» osserva Baker che, nonostante la miopia e la spondilite anchilosante che lo curvava progressivamente verso il basso, non ha mai smesso di fissare il suo binocolo nel blu del cielo per leggere «l’austero mondo marino dei falchi», come lo definisce nel suo unico altro libro, il capolavoro L’estate della collina (trad. di Salvatore Romano, Gea Schirò, 2008), che anche in questo caso condensa anni di osservazioni in un’unica stagione.
Ed ha ragione Robert Macfarlane a osservare nella prefazione che lo stile di Baker è «come una sorta di visore di realtà aumentata (…) che consente una precisione di visioni e movimenti altrimenti impossibile. (…). Il paesaggio diventa una superficie che si apre intorno a noi mentre procediamo. Il cervello è messo a dura prova dal dinamismo e dalla dissonanza della prosa e gli occhi dalle geometrie straordinarie. Le profondità di campo si addensano e appiattiscono in modo imprevedibile. L’intervallo focale si espande e si appiattisce. Gli orizzonti attraggono e si ritirano».
Fonte: Il Sole 24 Ore
Mario Vargas Llosa, autore peruviano naturalizzato spagnolo, premio Nobel per la letteratura nel 2010 e membro dell’Académie française (era nato ad Arequipa il 28 marzo 1936) è stato capace di coniugare sapientemente la scrittura di romanzi con pezzi giornalistici di grande valore e saggi penetranti e verrà ricordato come uno dei massimi prosatori latinoamericani del Novecento.
Il premio Nobel
L’Accademia svedese lo ha decorato, non a caso, «per la sua cartografia delle strutture del potere e per le acute immagini della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo».
Appena sedicenne, Vargas Llosa si era distinto con un dramma teatrale, La fuga dell’Inca (1952), che può essere considerato la sua prima vera prova letteraria, già densa di allusioni politiche (in particolare, in riferimento alla dittatura di Manuel Odría). Il romanzo d’esordio arriva nel ’63 con La città e i cani (tradotto in italiano da Feltrinelli nel ’67 e ora disponibile per Einaudi) che racconta la feroce disciplina della scuola militare Leoncio Prado. Seguono La Casa Verde (1966) e, soprattutto, Conversazione nella «Catedral» (1969), un’opera che fa ancora riferimento all’autoritarismo di Odría e che colloca Vargas Llosa solidamente a sinistra: le storie del giornalista Santiago Zavala e dello zambo Ambrosio si intrecciano nel losco bar «La Catedral», nominato in questo modo per la conformazione della sua porta d’ingresso. L’incipit del testo è semplicemente folgorante: «Dalla porta de “La Crónica” Santiago guarda l’avenida Tacna, senza amore: automobili, edifici disuguali e scoloriti, scheletri di pubblicità luminosa che ondeggiano nella nebbiolina, il mezzogiorno grigio.
Il Perù
In che momento si era fottuto il Perù? Gli strilloni, infilandosi tra i veicoli fermi al semaforo della calle Wilson, gridano i titoli dei giornali del pomeriggio, e lui comincia a camminare, piano, verso la Colmena» (traduzione di Enrico Cicogna, Einaudi). Al ’76 risale uno degli aneddoti più clamorosi della storia della letteratura ispanoamericana: a Città del Messico, probabilmente per motivi privati (ma la ragione reale non venne mai a galla), lo scrittore peruviano sferrò un pugno ben assestato all’amico Gabriel García Márquez. Risultato: il colombiano si fece ritrarre dal fotografo Rodrigo Moya sorridente e con un occhio nero. Il colpo a Márquez ha però un che di simbolico sotto il profilo politico: Vargas Llosa lascia di fatto la sinistra anticapitalista e raggiunge posizioni liberali.
Prosegue, intanto, fervida la sua attività letteraria: da La guerra della fine del mondo (1981) a Il narratore ambulante (1987), da Avventure della ragazza cattiva (2006) al recentissimo Le dedico il mio silenzio (2023), Vargas Llosa mescola sempre con ammirevole equilibrio formale un’inclinazione malinconica e una speranza non sopita. Straordinario poligrafo, l’autore peruviano – come anticipato – ha pubblicato anche racconti, testi per bambini, memorie e saggi (si ricordano La civiltà dello spettacolo, 2012, e Il richiamo della tribù, 2018).
Fonte: Il Sole 24 Ore