L’incertezza del contesto macroeconomico sta alimentando timori di riorganizzazioni e, quindi, di esuberi. I lavoratori italiani, però, sembrano essere più fiduciosi rispetto alla media di un campione internazionale di cui fanno parte Stati Uniti, Regno Unito, Brasile e Argentina. Da una survey, “La cultura in equilibrio: gestire i licenziamenti senza perdere la fiducia”, realizzata da Intoo (la società di Gi group holding specializzata nelle transizioni di carriera e nell’outplacement) in collaborazione con la società di ricerca Workplace Intelligence, intervistando 1.100 responsabili delle risorse umane e 1.100 dipendenti a tempo pieno, è emerso infatti che a livello globale il 53% dei lavoratori dice di temere di essere coinvolto in un piano di esuberi entro un anno. Il dato italiano, molto più basso, pari al 37% mostra una maggiore fiducia delle persone sia nella solidità del proprio posto di lavoro che nella resilienza della propria azienda, come anche nell’atterraggio meno traumatico garantito dagli ammortizzatori sociali e dagli strumenti di ricollocazione usati nel nostro Paese.
L’impreparazione a cercare un nuovo lavoro
Se la continuità professionale rappresenta un valore aggiunto sul piano contributivo e previdenziale, oltre che per il percorso di crescita e sviluppo, è però vero anche che la scarsa mobilità non aiuta a crearsi un network utile in caso di cambiamento e spesso non stimola all’acquisizione di nuove competenze. La quasi totalità dei lavoratori intervistati non si sente pronta ad affrontare l’eventuale ricerca di un nuovo impiego, sia dal punto di vista del network professionale, sia da quello delle competenze e delle capacità necessarie per candidarsi in una nuova posizione. Inoltre una persona su sei ritiene che questa ricerca potrebbe richiedere molto tempo: un quarto degli italiani parla di più di un anno.
L’impatto reputazionale
«Anche quando approcciate con le migliori intenzioni, le riduzioni del personale, le uscite volontarie, gli esuberi e i licenziamenti rappresentano momenti complessi e delicati nella vita di un’organizzazione – interpreta Cetti Galante, ceo di Intoo -. Bisogna considerare come la gestione dell’uscita rifletta inevitabilmente la cultura e l’immagine aziendale». E le aziende non sembrano molto preparate. Il 58% degli HR a livello internazionale, in Italia il dato è il 65%, ammette che la propria azienda non fornisce un adeguato sostegno in caso di riduzione del personale, anche se il 64% in Italia dichiarano che la propria realtà si impegna a essere corretta nel processo di licenziamento. Non sembrano molto allineati su questa visione i diretti interessati, i lavoratori: il 60% a livello globale e il 50% in Italia ritiene che i propri dirigenti manchino di empatia durante i licenziamenti. «A prescindere dalle difficoltà operative emerse dalla ricerca, è oggi sempre più rilevante una gestione ponderata di queste situazioni, che ne consideri tutte le conseguenze a livello interno ed esterno – spiega Galante -. È comunicando chiaramente le ragioni di queste scelte e offrendo sostegni concreti, caratterizzati da approcci umani e in linea con i valori aziendali, che si può operare per preservare nel lungo periodo la responsabilità sociale dell’azienda, l’occupabilità delle persone dentro e fuori la propria realtà, il coinvolgimento di chi resta e l’attrattività verso l’esterno, necessaria per la sostenibilità e la resilienza del business».
La perdita di produttività tra chi resta
Un piano di esuberi gestito male può avere infatti un effetto negativo sulla forza lavoro rimanente, tanto sul benessere che sulla motivazione: l’80% dei dipendenti su scala globale, il 78% in Italia, ritiene che le imprese tendano a sottovalutare questo impatto. Un licenziamento innesca infatti un senso di forte scoraggiamento. Dopo l’annuncio di un piano di esuberi, il 71% dei lavoratori (68% in Italia) si è detto propenso a iniziare subito a cercare un nuovo impiego, mentre il 62% (56% in Italia) ha perso fiducia nel proprio datore di lavoro. A questo si aggiunga che un intervistato su sei (il 12% in Italia) ha smesso di impegnarsi a fondo, il 44% (31% in Italia) considera compromessa la propria produttività e parla di aumento dello stress (oltre 60% in Italia, 71% a livello globale).
Il calo di attrattività
Una percezione che risulta molto disallineata con quella degli addetti delle risorse umane: la metà a livello internazionale, il 42% in Italia, pensa infatti che chi resta lavorerebbe più duramente di fronte all’annuncio di un piano di esuberi. Tra l’altro, in una fase storica in cui è molto difficile attirare talenti, soprattutto in determinati settori e con determinate competenze, i licenziamenti possono avere conseguenze significative anche a livello reputazionale. Quasi la metà delle imprese a livello globale (46% in Italia) ha subìto ripercussioni online e circa 1 lavoratore su 5 sarebbe pronto a lamentarsi pubblicamente: una quota che tra i lavoratori della Generazione Z si alza a 1 su 4.
Fonte: Il Sole 24 Ore