Con Sport Never Stop, la Fondazione Albero della Vita ha raggiunto 1.500 minori lavorando su assistenza e prevenzione
Fonte: Il Sole 24 Ore
La crisi del clima si fa sentire in Europa con le ondate di calore e i mega-incendi che hanno devastato i Paesi del Nord a giugno e quelli del Sud in agosto. In questo contesto, un gruppo crescente di scienziati si sta focalizzando sulle dinamiche in corso capaci di portare a un punto di non ritorno alcuni ecosistemi essenziali per la stabilità del clima, dall’Amazzonia alla Groenlandia, che fino ad oggi sono state sottovalutate.
Lenton: «I decisori politici devono essere pronti»
«I decisori politici devono riflettere di più sulle conseguenze del superamento dei punti di non ritorno e su come le società devono prepararsi», ha sostenuto Tim Lenton, esperto mondiale di “tipping points” e professore di Scienze del sistema terrestre nell’università di Exeter, dove si è tenuta nel luglio 2025 la seconda conferenza mondiale sul tema. Nessun governo, con la possibile eccezione dei Paesi nordici, sta considerando scenari come il crollo della calotta glaciale con la stessa serietà riservata ad altri rischi ad alto impatto come le pandemie, sostiene Lenton.
I tipping point al centro della Cop30 di novembre
Gli organizzatori del convegno (oltre al Global Systems Institute di Exeter, anche il Potsdam Institute for Climate Impact Research e il Max Planck Institute of Geoanthropology) hanno lanciato un appello alla comunità scientifica, ai decisori politici e alle aziende per sensibilizzarli sull’importanza dei “tipping points” e accelerare le azioni di contrasto. Oltre agli scienziati, anche i servizi di emergenza, le assicurazioni e i fondi pensione stanno mostrando un crescente interesse per i punti di non ritorno. Lo stesso vale per gli organizzatori brasiliani della Cop30, che dedicherà molta attenzione al tema, anche perché il vertice si terrà a novembre a Belém, la porta dell’Amazzonia.
I rischi per la fusione dei ghiacciai
Il problema di fondo è che nessuno conosce l’esatto livello di riscaldamento necessario per innescare un punto di non ritorno specifico. Il clima terrestre è governato da moltissimi processi interconnessi, alcuni dei quali – come le dinamiche che governano la fusione della calotta glaciale o i potenziali effetti degli incendi boschivi – sono scarsamente compresi. A complicare ulteriormente le cose, un punto di non ritorno può innescarne un altro, in un effetto domino. L’acqua dolce rilasciata negli oceani dalla fusione dei ghiacci della Groenlandia, ad esempio, può portare al rallentamento dell’Atlantic Meridional Overturning Circulation (Amoc, meno nota ma più importante della corrente del Golfo), riducendo ulteriormente le precipitazioni sull’Amazzonia, che rischia di trasformarsi in una savana e di rilasciare in atmosfera decine di miliardi di tonnellate di anidride carbonica, riscaldando ulteriormente il pianeta.
Lenton sostiene che dall’ultima conferenza sui punti di non ritorno del 2022, le temperature globali sono aumentate, spingendo molti ecosistemi verso un punto di non ritorno, cioè verso un collasso causato da “feedback amplificati”, in un sistema che diventa autopropulsivo: questi processi sono “molto difficili da invertire e potrebbero essere piuttosto bruschi”. I punti di non ritorno che destano maggiore preoccupazione includono la calotta glaciale dell’Antartide occidentale, dove le perdite ormai si autoalimentano, con il rischio di arrivare ad innalzare il livello degli oceani di circa 1,2 metri. C’è anche la calotta glaciale della Groenlandia, che sta perdendo massa a un ritmo accelerato. Poi c’è il permafrost, parti del quale hanno già superato punti di non ritorno localizzati, con ingenti perdite di metano in atmosfera. E c’è lo sbiancamento senza precedenti delle barriere coralline, da cui centinaia di milioni di persone dipendono per il loro sostentamento. Altri ecosistemi vicini a un punto di non ritorno sono l’Amoc, che a sua volta potrebbe innescare punti di non ritorno monsonici in India, e il degrado della foresta pluviale amazzonica, dovuto a una combinazione di cambiamenti climatici e incendi causati dall’uomo.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Uno dei due pulmini dell’associazione Un’infanzia da vivere bruciati per fermare le loro attività per la legalità, nell’ottobre del 2021, sarà trasformato in una redazione radio per gli adolescenti. Il 15 settembre 2025 sarà il primo giorno di scuola e dalle ore 7 alle ore 13 Radioimmaginaria, la radio degli adolescenti, assieme all’associazione Un’infanzia da vivere organizza al Parco Verde di Caivano una maratona-radio contro la dispersione scolastica che in questa zona registra uno dei tassi più alti d’Italia.
«In un quartiere di periferia come il nostro è difficile far capire che la scuola è importante per il proprio futuro», spiega Bruno Mazza, referente di Un’infanzia da vivere, associazione fondata nel 2008 per offrire a bambini e adolescenti alternative concrete al degrado e alla criminalità organizzata. «Al Parco Verde l’80% delle ragazze e dei ragazzi hanno solo la quinta elementare. Anche io ero come loro, poi a 18 anni quando sono entrato in carcere grazie alla scuola ho vissuto la mia libertà».
Il pulmino bruciato diventa redazione
Da questa esigenza nasce l’idea degli speaker di Radioimmaginaria di iniziare la nuova stagione di Ti accompagno a scuola, il programma che racconta il tragitto casa–scuola degli studenti, proprio dal Parco Verde.
L’attenzione in questa giornata sarà per il pulmino radio e questo il ricordo dei ragazzi: «Fino a quel momento ci aveva permesso di fare nuove esperienze andando fuori dal quartiere, come andare al mare per la prima volta o vedere una partita del Napoli allo stadio, sarà bello vederlo rivivere con la radio»
Il progetto per il Parco Verde prevede che nascerà una redazione di Radioimmaginaria a Caivano, la radio degli adolescenti dai 10 ai 17 anni che conta oltre 20 tra redazioni e inviati sparsi in tutta Italia.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Cambia lo scenario, cambia l’approccio. Attenzione, però, a leggere la transizione sostenibile in chiave di rallentamento o, peggio, di disimpegno. I numeri raccontano una storia diversa: secondo i dati aggiornati della Science Based Targets initiative (Sbti), il numero di imprese mondiali che ha definito target climatici allineati agli obiettivi dell’Accordo di Parigi è in costante crescita. Prima dell’elezione del presidente Trump, lo scorso novembre, le aziende iscritte erano circa 9.400, salite a più di 11.000 a luglio 2025 nonostante il cambio di rotta dell’amministrazione statunitense sui temi legati alla sostenibilità.
«Anche gli investimenti Esg sono in crescita, gli asset under management registrano un incremento – commenta Francesco Perrini, presidente di Clearwater Italia e associate dean for sustainability di Sda Bocconi –. Inoltre, nel corso delle assemblee di grandi società Usa, come Apple o Levis, oltre il 99% degli azionisti ha votato per mantenere le policy relative all’inclusione. La sostenibilità non è più narrativa, ma leadership concreta. I dati e le metriche di misurazione degli impatti diventano le priorità».
La normativa detta i tempi del cambiamento
Nonostante questo, il clima intorno alla sostenibilità aziendale è cambiato. Negli Stati Uniti, la Sec ha sospeso temporaneamente l’applicazione delle nuove regole sulla disclosure climatica, in attesa dei pronunciamenti della Corte Suprema. In Europa, la direttiva Omnibus mira a innalzare da 250 a 1.000 dipendenti la soglia di applicazione della Csrd – Corporate sustainability reporting directive, escludendo migliaia di imprese dagli obblighi di rendicontazione.
Diversa la situazione in Oriente, dove Cina, India e Singapore accelerano sul fronte della sostenibilità, imponendo maggiore disclosure e integrazione dei rischi ambientali e sociali nei bilanci aziendali. «La Cina, ad aprile, registrava il 51% di produzione elettrica proveniente da fonti rinnovabili – spiega Perrini – e ha approvato tre normative relative alla transizione green di imprese e investimenti. Questi Paesi stanno innovando e accelerando anche su questo fronte, a differenza di quanto accade nel Vecchio Continente e negli Stati Uniti. A spingerli è la volontà di restare competitivi sui mercati internazionali, in particolare quello europeo. La direttiva Omnibus, invece, fa un salto indietro di ben due legislature, favorendo le grandi catene internazionali, a scapito delle filiere locali».
Nuove priorità per le imprese
Cresce, però, tra le imprese la visione della sostenibilità come scelta strategica e competitiva. È quanto emerge dall’analisi dei bilanci, con una riduzione dei costi e un aumento della marginalità a fronte di investimenti Esg. Questo porta sempre più aziende a considerare questo asset come elemento indispensabile per la leadership.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Cresce la produzione di rifiuti speciali, sale il volume e la percentuale del recupero che raggiunge la soglia record del 73% e diminuisce il conferimento in discarica. Sono i numeri descritti nel Rapporto rifiuti speciali edizione 2025 dell’Ispra giunto alla ventiquattresima edizione.
Nel 2023 si registrano quasi 164,5 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (+1,9% rispetto al 2022, corrispondente a più di 3 milioni di tonnellate) legati alle attività industriali, commerciali, artigianali, di servizi, di trattamento dei rifiuti e di risanamento ambientale.
Record del recupero con il 73%
In questo scenario emerge un altro dato: «nel 2023 si raggiunge un dato record nel recupero, grazie al quale il 73% (130 milioni di tonnellate) degli speciali acquista una nuova vita – sottolineano all’Ispra -: di questi, oltre 80 milioni di tonnellate sono rifiuti da costruzione e demolizione che diventano prevalentemente sottofondi stradali e rilevati; 21 milioni di tonnellate di rifiuti di metalli e composti metallici (11,6% del totale gestito) vengono in prevalenza riutilizzati dalle acciaierie del Nord Italia; riciclate le sostanze organiche come carta, cartone e legno (circa il 7% del totale gestito)». Appresso, un altro elemento considerato dagli esperti e ricercatori «positivo»: rispetto al 2022 diminuisce di 997 mila tonnellate, con un -11,2%, il conferimento dei rifiuti speciali in discarica.
I settori: costruzioni in testa
Dall’esame dei dati emerge che «è ancora una volta» il settore delle costruzioni e demolizioni – con circa 83,3 milioni di tonnellate – quello con la maggiore produzione totale di rifiuti speciali, concorrendo per quasi il 51% alla produzione complessiva.
Nel quadro complessivo i rifiuti non pericolosi, «che rappresentano il 93,8% del totale dei rifiuti prodotti», crescono di 2,8 milioni di tonnellate registrando un +1,9%. Stessa tendenza e percentuale per quelli pericolosi che aumentano di 193 mila tonnellate. Il dato complessivo vede i rifiuti speciali non pericolosi ammontare a quasi 154,3 milioni di tonnellate e quelli pericolosi a poco più di 10 milioni di tonnellate.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Investire di più ma comunicare di meno: è la strategia condivisa dalle imprese statunitensi in materia di sostenibilità. Nonostante le incertezze normative e il dibattito sul tema che attraversa gli Usa, sostenuto dalle scelte dell’amministrazione Trump, i pilastri Esg restano un elemento competitivo secondo i dirigenti aziendali. È quanto emerge dall’analisi “2025 U.S. Business Sustainability Landscape Outlook: Executive Perspectives on Supply Chain Disruption, Resilience and Competitiveness” di EcoVadis, piattaforma leader nella valutazione delle performance Esg delle imprese, che ha interpellato 400 dirigenti di aziende americane con fatturato superiore al miliardo di dollari.
I numeri parlano chiaro: l’87% delle imprese ha mantenuto o aumentato gli investimenti in sostenibilità nel 2025, a dispetto del clima di incertezza normativa legato al rallentamento delle politiche Esg negli Stati Uniti. I dirigenti vedono la sostenibilità come un vantaggio competitivo, investono in tecnologie per rafforzare le catene di approvvigionamento, gestire i rischi e favorire la crescita e la resilienza. Le aziende continuano a dare priorità alla sostenibilità aziendale, ma in modo più discreto, con una comunicazione pubblica ridotta.
Aumenta la quota di imprese che sceglie il greenhushing
Quasi la metà degli intervistati (48%) dichiara che la strategia di sostenibilità aziendale rimane invariata quest’anno, mentre il 31% dei dirigenti dichiara di aumentare gli investimenti, riducendo la comunicazione pubblica. L’8% ha smesso di parlare pubblicamente dei propri impegni ma continua a investire. Cresce, quindi, la quota di imprese che decide volontariamente di valorizzare meno o non parlare del tutto del proprio impegno sul fronte della sostenibilità (greenhushing). Solo il 7% degli intervistati ha effettivamente ridotto gli sforzi di sostenibilità e appena il 6% ammette di considerarla una bassa priorità, limitandosi al minimo per rispettare la normativa.
È forte la consapevolezza del ruolo svolto dai pilastri Esg sul fronte della competitività. Il 65% dei dirigenti, infatti, afferma che la sostenibilità della catena di fornitura rappresenta un vero e proprio vantaggio competitivo, contribuendo alla crescita grazie alla riduzione dei rischi, maggiore resilienza, miglioramento del brand, efficienza della catena di fornitura e risparmio sui costi. Il 62% dei direttori e dei vicepresidenti, oltre al 59% dei C-suite executives, ritiene che aiuti ad attrarre e mantenere i clienti. La maggioranza dei leader finanziari (52%) condivide questa visione, considerandola un motore di crescita.
La normativa tra rischi e opportunità
Quasi la metà (47%) degli intervistati afferma che l’eliminazione delle normative Esg implicherebbe numerosi rischi, aumentando le interruzioni della catena di fornitura. Il 35% ritiene che un arretramento normativo possa peggiorare la qualità dei dati Esg, compromettere la responsabilità e avere un impatto negativo sui risultati di sostenibilità. Inoltre, il 59% prevede un aumento delle pratiche lavorative scorrette e dei maltrattamenti ai lavoratori.
Fonte: Il Sole 24 Ore
La volatilità crescente del clima si rispecchia in una maggiore volatilità dei prezzi delle materie prime alimentari. Dal riso in Giappone all’olio extravergine in Italia, gli sbalzi sono arrivati fino alle nostre tavole e sono destinati a continuare, secondo uno studio di Inverto, la sussidiaria di Boston Consulting Group specializzata nella gestione delle catene di approvvigionamento. Ma la cavalcata più drammatica è quella del cacao, che dal 2022 ad oggi ha quadruplicato le quotazioni, mandando alle stelle i prezzi della cioccolata.
Come influisce il clima?
Le ondate di caldo torrido e le forti piogge che hanno flagellato i Paesi dell’Africa occidentale, dove si produce il 70 per cento del cacao globale, hanno reso gli alberi del cacao meno produttivi e hanno favorito la diffusione di malattie, mandando in bancarotta molti piccoli agricoltori. Il virus del “cacao swollen shoot” e la malattia del baccello nero, un’infezione fungina che fa marcire i baccelli di cacao, hanno entrambi colpito duramente le piantagioni. Un disastro destinato a peggiorare nei prossimi anni: un rapporto di Climate Central ha calcolato che nell’ultimo decennio si sono aggiunte tre settimane in più di caldo superiore ai 32°C durante la stagione principale, tra ottobre e marzo, quando le piante dovrebbero rimanere al di sotto di questa soglia. La previsione è che gran parte di queste aree siano destinate a diventare inadatte alla coltivazione del cacao entro il 2050.
Per gli amanti del cioccolato, la minaccia di perdere per sempre questa delizia si fa seria. Si tratta di correre ai ripari con l’aiuto del food tech: i giganti del cioccolato, da Nestlé a Mars, si stanno già muovendo. C’è chi utilizza colture in vitro di cellule vegetali per produrre cacao sintetico, mentre altri sfruttano flussi agricoli collaterali e colture più resistenti al clima per realizzare nuove varianti di cioccolato.
L’ultima scoperta arriva dagli scienziati dell’University College Cork, dell’Università di San Paolo e del New York Botanical Garden, che hanno scoperto tre nuove specie di piante strettamente imparentate con il Theobroma cacao, l’albero del cacao originario del Sud America e fonte di un’industria che sostiene i redditi di oltre 50 milioni di persone. Il team di ricercatori si è imbattuto nelle tre nuove specie – Theobroma globosum, T. nervosum e T. schultesii – durante la preparazione di un rapporto tassonomico sul genere Theobroma, condotto nella parte occidentale della foresta pluviale amazzonica. A differenza di Theobroma cacao, le altre tre specie crescono da un singolo fusto e sebbene la struttura interna delle foglie e dei frutti sia simile in entrambe le piante, il guscio è molto più corrugato. La scoperta, secondo i ricercatori, potrebbe portare allo sviluppo di alberi di cacao più resistenti al clima, riportando nuova linfa nelle piantagioni ormai infestate.
Colture cellulari
La startup israeliana Kokomodo, invece, punta a risolvere il problema saltando la fase della coltivazione: seleziona cellule dalle varietà di cacao più pregiate provenienti dall’America Centrale e Meridionale e le coltiva in una coltura cellulare. Da lì, le cellule sono trasferite in bioreattori, da dove il cacao viene raccolto e lavorato. «Coltivare il cacao è come coltivare la carne, ma più semplice», spiega la fondatrice Tal Govrin. E aggiunge: «Con l’emergenza climatica che minaccia il cacao, un metodo di produzione non agricolo potrebbe garantirne la sopravvivenza per le generazioni future». Il suo primo prodotto è un “cacao in polvere ad alto valore”, che presto sarà seguito dal burro di cacao.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Ondate di caldo estremo, siccità in aumento, ma anche volatilità delle precipitazioni, con bombe d’acqua impreviste che flagellano le città e distruggono i raccolti: è la nuova normalità legata alla crisi del clima, a cui ci dobbiamo abituare.
Il 40% delle terre è a rischio siccità
In base al Global Drought Outlook dell’Ocse, la superficie terrestre esposta al rischio siccità è raddoppiata nel giro di un secolo, ormai è il 40% delle terre emerse, con una drastica impennata negli ultimi decenni. «L’impatto economico della siccità oggi è sei volte superiore rispetto all’anno 2000 e i costi sono destinati a salire ancora, aumentando almeno del 35% da qui al 2035», precisa Jo Tyndall, direttore della direzione Ambiente dell’Organizzazione. Le zone in cui la siccità è più frequente e intensa sono l’Ovest degli Stati Uniti, il Sud America, l’Europa meridionale, l’Australia meridionale, l’Africa settentrionale e la Russia. L’Ocse stima che una singola ondata di siccità può arrivare a costare tra lo 0,1% e l’1% del Pil di una nazione, a seconda di quanto il suo sistema economico sia dipendente dall’agricoltura o dall’energia idroelettrica.
Nature: rese delle colture in calo dell’11%
La siccità determina l’aumento dei prezzi, aggrava la povertà e causa migrazioni di massa. Incide su molti settori chiave dell’economia, anche se l’agricoltura è il settore che ne risente di più, dal momento che impiega quasi il 70% dell’acqua dolce disponibile nell’irrigazione dei campi. I raccolti posso calare anche del 22% negli anni siccitosi. Proprio per queste ampie ricadute, la siccità potrebbe spazzare via quasi il 15% della produzione economica dell’Eurozona, secondo uno studio della Bce. Le banche europee, infatti, hanno erogato prestiti per 1,3 trilioni di euro ai settori considerati più a rischio, ovvero l’agricoltura, l’industria manifatturiera, l’industria mineraria e l’edilizia.
Per quanto riguarda l’agricoltura, un nuovo studio appena uscito su “Nature” rivela che le rese medie globali di sei colture di base (manioca, mais, riso, sorgo, soia e grano) sono destinate a diminuire di oltre l’11% in uno scenario di riscaldamento moderato entro la fine del secolo, anche tenendo conto delle modalità di adattamento degli agricoltori all’emergenza climatica. Gli autori, prevalentemente americani, concludono che mantenere fluidi gli scambi commerciali globali sarà un elemento essenziale per ridurre i danni economici della crisi. Purtroppo però si tende a fare il contrario: ad esempio l’India, il più grande esportatore di riso al mondo, nel 2023 ha vietato l’uscita del riso basmati non bianco, facendo salire vertiginosamente i prezzi in tutto il mondo, dopo un monsone distruttivo.
Pratiche innovative
Soluzioni? Il rapporto Ocse suggerisce tre strategie interconnesse da applicare per combattere la siccità. Il primo punto riguarda i sistemi d’irrigazione, che andrebbero riconvertiti in sistemi a goccia, perché questi possono tagliare di quasi il 76% il consumo di acqua in alcune aree geografiche, senza intaccare le rese. In secondo luogo, l’Ocse raccomanda una riforma della tariffazione dell’acqua, adeguandola al valore reale della risorsa e dei costi ambientali per erogarla. Terzo, il rapporto sottolinea l’urgenza di considerare sempre l’acqua nel quadro dei piani di adattamento al clima attraverso strategie basate sulla natura che comprendano agricoltura, energia e pianificazione urbanistica. Le soluzioni a breve termine come la desalinizzazione o l’estrazione eccessiva di acqua dal sottosuolo, invece, possono causare problemi sia di natura economica che ecologica. I livelli delle falde acquifere, infatti, stanno diminuendo (il 62% di quelle monitorate) e molti fiumi subiscono significative riduzioni della portata. Queste variazioni nella disponibilità idrica accelerano il degrado del suolo e influiscono negativamente su ecosistemi come foreste e zone umide, esacerbando futuri rischi di siccità.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Un salto di qualità. Atteso da anni. La finanza d’impatto in Italia è ancora un tema di nicchia. Secondo l’ultima ricerca (maggio 2025) realizzata da Human Foundation e Fondo italiano d’Investimento, gli investimenti a impatto in Italia hanno raggiunto quota 9,3 miliardi nel 2022 contro i 5,8 miliardi del 2020. Nonostante la crescita importante, c’è ancora molto da lavorare per spingere e radicare il settore. Un ruolo chiave potrebbe averlo Social Impact Agenda per l’Italia (Sia), organizzazione impegnata proprio nello sviluppo dell’impact investing. E che di recente, a inizio giugno, ha visto un cambio alla presidenza: al posto dell’uscente Giovanna Melandri, è diventato presidente di Sia, Stefano Granata, già vicepresidente dal 2016.
Il programma di Granata
Pioniere dell’imprenditoria sociale, Granata è anche presidente di Confcooperative Federsolidarietà, organizzazione nazionale che rappresenta le cooperative sociali. Dal 2021 presiede poi Aiccon Research Center, centro studi che promuove la cultura della cooperazione e del non profit.
Ora c’è la sfida dell’impact investing in Italia. «Cosa penso di fare? Vorrei concentrare il nostro lavoro su un paio di temi e far convergere su di loro le tante energie dell’ingegneria sociale italiana – afferma Granata – . C’era stata inizialmente l’idea di concentrarsi sulle comunità energetiche ma l’interesse sta venendo meno perché ci sono difficoltà nel farle decollare. Non è proprio un progetto win-win come si diceva all’inizio. In alternativa, gli ambiti su cui focalizzare le forze, potrebbero essere la riqualificazione urbana e soprattutto la casa. Penso proprio che su tali temi potremmo trovare l’interesse dei fondi».
Italia in ritardo?
Secondo la definizione del Global Impact Investing Network (Giin), con l’espressione impact investing si fa riferimento ad “investimenti in imprese, organizzazioni e fondi realizzati con l’intento di generare un impatto sociale e ambientale misurabile e in grado, allo stesso tempo, di produrre un ritorno economico per gli investitori”.
In Italia sono ancora pochi i fondi attivi nel settore. Eppure, secondo l’analisi di Granata, nel nostro Paese l’offerta c’è manca invece la domanda. «Sono stati fatti grandi passi in avanti in Italia sul versante della finanza da impatto sociale negli ultimi dieci anni – spiega il presidente di Sia -. C’è stato un accreditamento a livello internazionale. Inoltre sono entrati in Sia istituzioni, fondi e importanti protagonisti della finanza italiana. In questo momento, la finanza d’impatto nel nostro Paese ha una discreta offerta mentre dal lato della domanda c’è veramente poco. Il capitale paziente ancora non si è visto».
Fonte: Il Sole 24 Ore
L’unica certezza è il rinvio delle scadenze di due anni. All’insegna della semplificazione e di un perimetro di applicazione sempre più ristretto in attesa dei dettagli definitivi. Nelle istituzioni Ue e nelle capitali dei Ventisette va in scena la battaglia della Csrd, la direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità già recepita a livello nazionale che ora, con il Pacchetto Omnibus di febbraio della Commissione Ue è oggetto di una profonda revisione con l’obiettivo di ridurre oneri e costi per le imprese.
Il rinvio dell’applicazione
Ad aprile le istituzioni Ue si sono trovate d’accordo per fermare di due anni le lancette dell’orologio (il cosiddetto stop the clock) dell’applicazione del provvedimento: 2028 (sul bilancio 2027) per le grandi imprese che non hanno ancora avviato la rendicontazione di sostenibilità e 2029 per le Pmi quotate (sull’ anno finanziario 2028). Nel frattempo a fine giugno il Consiglio Ue ha definito la sua posizione negoziale proponendo un’ulteriore semplificazione: oltre alla soglia dei mille dipendenti già proposta dalla Commissione (erano 250 nella prima versione della direttiva entrata in vigore), i ministri hanno alzato a 450 milioni di euro il limite di fatturato annuo (dai 50 proposti dal pacchetto Omnibus).
Le novità sul tavolo
La palla è ora nel campo della commissione affari legali dell’Europarlamento. Il punto di partenza è il report del relatore Joergen Warnborn (Ppe) che propone un ulteriore innalzamento della soglia di applicazione alle imprese con oltre 3mila dipendenti (e 450 milioni di fatturato), ma anche piani di transizione climatica – che permettono di anticipare e mitigare i rischi finanziari legati al clima – non più obbligatori ma volontari. Il 14 e il 15 luglio è prevista la discussione degli emendamenti in vista del voto del 13 ottobre, mentre nella seconda metà del mese si esprimerà l’Europarlamento in plenaria. Poi potrà iniziare il trilogo, il negoziato con l’esecutivo Ue e il Consiglio.
«Lo sforzo di semplificazione intrapreso dalla Commissione Ue – sottolinea Benedetta Testino, associate director di Bcg – rappresenta un passo necessario e atteso. Nel primo anno di implementazione (2024) molte aziende si sono scontrate con un impianto normativo eccessivamente dettagliato, con requisiti in alcuni casi ridondanti o di difficile interpretazione. Questo ha portato a rendicontazioni scritte con un approccio di mera compliance, per rispettare il requisito, senza aprire a informazioni di business ». Nel frattempo l’Efrag (European financial reporting advisory group) lo scorso 20 giugno ha pubblicato la bozza di revisione degli standard (Esrs) per la redazione del nuovo bilancio di sostenibilità con sei direttrici di semplificazione. «L’obiettivo – spiega Testino – è quello di muoversi verso un modello meno prescrittivo, in grado di ridurre del 50% il numero di data point obbligatori e alleggerire in modo sostanziale l’onere di rendicontazione e formalizzazione: un approccio più pragmatico all’esercizio di doppia materialità, una riduzione delle duplicazioni, una distinzione tra obblighi vincolanti e linee guida non vincolanti e – in generale – meno informazioni richieste ». Un ulteriore passo avanti auspicabile, aggiunge, «riguarda l’elaborazione di linee guida operative settoriali, in particolare per gli intermediari finanziari».
Meno obblighi non significano però un invito ad abbassare la guardia sulla sostenibilità: «La rendicontazione e in particolare la doppia materialità – conclude – devono essere viste non come un esercizio formale, ma come leva di strategia per individuare i pochi e ben selezionati ambiti dove l’azienda può davvero fare la differenza».
Fonte: Il Sole 24 Ore