
Catricalà: una mostra dal valore artistico, culturale e identitario molto forte
Impegnato in Arabia Saudita su progetti culturali museali, Valentino Catricalà, romano classe 1984, è partito dalla capitale per affinare la sua formazione tra Manchester e Parigi, tra la SODA-School of Digital Art e l’art center MODAL e il Sony Lab, al centro la transdisciplinarietà che coniuga arte e tecnologia, interrogandosi su intelligenza artificiale, sostenibilità, nuove forme di produzione e fruizione culturale.
Ci racconti di te, del tuo percorso e della tua visione curatoriale? Soprattutto quali mostre che per impatto ed importanza possono essere qualificanti del tuo percorso?
Ho iniziato con un forte approccio di ricerca che ha caratterizzato il mio primo grande evento, il Media Art Festival, ospitato dal MAXXI, promosso dalla Fondazione Mondo Digitale. Portammo per vari anni tantissimi artisti a Roma, per poi passare a lavorare a Parigi con il Sony Lab, un progetto ai limiti dell’arte contemporanea. Poi sono andato a Manchester perché ho preso la direzione artistica della MODAL Gallery presso SODA-School of Digital Art, un grande progetto originato da un finanziamento di 35 milioni di sterline e ora il salto in Arabia Saudita. In questi passaggi non ho mai perso di vista la ricerca, la base che mi ha dato il mio dottorato, per cercare sempre di portare avanti progetti innovativi, come la mostra di Dara Birnbaum presso la Fondazione Prada (Osservatorio) a Milano e a Tokyo (co-curata con Barbara London ed Eva Fabris), la grande retrospettiva di Bill Viola presso Palazzo Reale a Milano, e recentemente la grande mostra sui rapporti tra arte e gonfiabile presso il Grand Palais di Parigi…e poi tante altre mostre a San Francisco, a Nuova Delhi, fra le tante e tante pubblicazioni…
Guardando al passato c’è un Padiglione Italia che ti ha particolarmente colpito o ispirato e quali errori non vanno ripetuti? E ampliando lo sguardo a quelli internazionali?
Credo che i Padiglioni vadano interpretati in base alle esigenze del periodo storico in cui si collocano. L’esigenza di proporre molti artisti a rappresentare un Paese era pratica comune (se si eccettua il padiglione curato da Ida Giannelli), oggi, invece, si prediligono meno artisti con installazioni di grande formato. In questo penso che la Germania sia stata apripista e, sicuramente, il Padiglione di Cecilia Alemani è stato uno spartiacque per quanto riguarda l’Italia.
Fonte: Il Sole 24 Ore