Chi è Kash Patel, l’uomo di Trump alla guida dell’FBI
Quando Donald Trump, appena rieletto nel 2024, decise i nomi chiave della sua nuova amministrazione, il criterio non fu l’esperienza istituzionale, ma la fedeltà personale. Kashyap “Kash” Patel, 44 anni, figlio di immigrati indiani cresciuto a Queens (New York), è stato tra le scelte più sorprendenti. Laureato in giurisprudenza, procuratore federale in Florida, poi consigliere legale presso la NSA e il Pentagono, Patel aveva già acquisito notorietà come staffer repubblicano alla Camera, dove guidò indagini contro l’FBI accusandola di avere “fabbricato” il Russiagate ai danni di Trump. Una battaglia che lo consacrò come figura di riferimento per l’allora presidente e che gli aprì la strada alla direzione del Bureau. Il suo stile – combattivo, partigiano, spesso più da opinionista televisivo che da burocrate – ha segnato la sua carriera e continua a far discutere.
Un direttore combattivo
Dalla sua nomina, Patel ha impostato la sua leadership su una linea di scontro frontale. Non ha mai cercato la mediazione, anzi: davanti al Congresso ha trasformato le audizioni in palcoscenici politici. Nel suo debutto alla Commissione Giustizia del Senato, i democratici lo hanno incalzato sulle epurazioni interne e sulla gestione di casi delicati, ma lui ha reagito con tono furioso. Ha liquidato domande e critiche come “disgustose” o “vergognose”, ha accusato i senatori di “fare teatro” e ha persino apostrofato Adam Schiff come “il più grande truffatore mai seduto in Senato”. Per i suoi sostenitori repubblicani, Patel è l’uomo che ha restituito all’FBI la missione di contrasto al crimine dopo anni di politicizzazione. Per i suoi avversari, è la politicizzazione fatta persona. Lo scontro verbale è diventato la cifra del suo mandato.
Epurazioni e accuse di politicizzazione
Uno dei capitoli più controversi riguarda le epurazioni al vertice del Bureau. Decine di dirigenti e agenti sono stati licenziati o costretti a lasciare. Molti avevano avuto un ruolo nelle inchieste su Trump o sul 6 gennaio. Secondo tre ex alti funzionari – tra cui Brian Driscoll, già direttore ad interim – si è trattato di una “purga politica” concordata con la Casa Bianca, tanto da spingerli a fare causa all’agenzia. Patel respinge con forza questa lettura: sostiene che chi è stato rimosso “non rispettava i doveri costituzionali” e che le decisioni sono state sue, non della presidenza. Resta il fatto che l’FBI, sotto la sua guida, ha ridotto risorse su controterrorismo e corruzione per concentrarle su immigrazione e criminalità di strada, in linea con le priorità dell’amministrazione Trump. È questa torsione che alimenta le accuse di politicizzazione.
Il caso Kirk
Il momento più delicato per Patel e per l’FBI è quello attuale: la gestione dell’omicidio di Charlie Kirk, 31 anni, volto dell’attivismo conservatore, ucciso con un colpo di fucile durante un evento universitario nello Utah. Patel ha preso in mano l’indagine e la comunicazione, aggiornando il pubblico in diretta sui social. Proprio qui inciampa: annuncia prematuramente l’arresto di un sospettato, che in realtà viene subito rilasciato. L’errore alimenta dubbi sulla sua capacità di guidare un’inchiesta complessa.
Alla fine il sospettato, Tyler Robinson, si consegna spontaneamente, riconosciuto dal padre dopo la diffusione di immagini ad alta risoluzione. Contro di lui, secondo Patel, ci sono prove schiaccianti: un biglietto in cui annuncia di voler uccidere Kirk e tracce di DNA sull’arma e sugli strumenti usati per il delitto. Resta il nodo del movente. Patel e il governatore repubblicano Spencer Cox parlano di radicalizzazione di sinistra, dipingendo Robinson come un giovane “normalissimo” che, dopo l’abbandono degli studi, si sarebbe avvicinato a ideologie progressiste estreme. I democratici accusano il direttore di avere politicizzato la vicenda per colpire gli avversari.
Fonte: Il Sole 24 Ore