Cibo e depressione, l’alimentazione influisce anche sull’umore?
“Mangia che ti passa” suggerivano le nonne quando l’umore non era proprio al top. Ed è un classico delle commedie romantiche vedere la protagonista, quasi sempre giovane e donna, intenta ad affogare i dispiaceri in un barattolone gigante di gelato o di crema al cioccolato. Eppure, al di là del sollievo momentaneo, sul lungo periodo è vero il contrario: molti studi suggeriscono infatti un’associazione tra lo stile di vita e la salute mentale, con particolare attenzione ai possibili collegamenti tra le abitudini alimentari e il rischio di depressione. Uno studio internazionale chiamato ALIMENTAL – condotto su oltre 15.000 individui in vari Paesi del mondo – ha osservato che tra i giovani adulti di entrambi i sessi il consumo di cibi ultraprocessati si accompagna a un rischio di depressione maggiore aumentato. Il rischio è invece nettamente inferiore in uomini e donne di oltre 55 anni che si attengono a una sana alimentazione, ricca di frutta e verdura.
Ma è vero che chi mangia meglio è meno depresso?
Varie indagini, tra cui quella precedentemente citata, suggeriscono che le persone più attente a condurre una vita sana, oltre ai vantaggi sul piano fisico, ne riportano anche su quello psicologico e mentale; viceversa, tra chi segue lo schema alimentare tipico dei Paesi occidentali ad alto reddito, in genere più ricco di cibi ultraprocessati, grassi animali, sale, dolci e bevande zuccherate, il rischio di sviluppare sintomi depressivi o di ricevere una vera e propria diagnosi di depressione appare più alto. Ma le variabili in gioco, come si può intuire, sono tante. Si sono ipotizzati vari possibili meccanismi per spiegare la relazione esistente tra dieta e salute mentale. Il primo è mediato dal fatto che un’alimentazione scorretta favorisce sovrappeso e obesità. L’accumulo di tessuto adiposo può influire sulla salute attraverso meccanismi immunologici e aumentando lo stato infiammatorio dell’organismo, che a sua volta si ritiene possa favorire, oltre a malattie cardiovascolari e diabete, anche la depressione. L’eccesso ponderale, tuttavia, può facilitare l’insorgenza di sintomi depressivi anche attraverso meccanismi psicosociali, come isolamento, stigma e senso di inadeguatezza, che spesso alimentano un circolo vizioso che comprende anche una maggiore sedentarietà. Il sovrappeso, infatti, può disincentivare proprio quell’attività fisica, che, oltre a contribuire a un migliore equilibrio energetico, è a sua volta capace di migliorare l’umore. In una dieta poco sana possono poi scarseggiare alcune vitamine, aminoacidi e minerali fondamentali, tra l’altro, anche per la salute del cervello.
Ma è vero che c’è un asse tra intestino e cervello?
Tra i meccanismi biologici, l’attenzione è però puntata soprattutto sul ruolo del microbiota intestinale, fondamentale nel cosiddetto “asse” che sembra legare intestino e cervello. Sappiamo infatti che gli stili di vita occidentali favoriscono un impoverimento e uno squilibrio tra le diverse componenti del microbiota intestinale, una condizione che ancora non sappiamo diagnosticare con esattezza, ma che è comunemente chiamata “disbiosi”. Viceversa, anche grazie alla ricchezza di fibre, quando si segue una sana alimentazione il microbiota è arricchito da molte diverse specie di batteri, lieviti e altri microrganismi, che convivono pacificamente e con mutuo vantaggio con l’organismo umano. Si ritiene che un microbiota sano produca sostanze capaci di influire positivamente sull’attività cerebrale e per questo le sue alterazioni sono chiamate in causa in relazione a malattie del sistema nervoso centrale e ai disturbi dell’umore. La prova che il legame tra intestino e cervello dipende spesso dal microbiota deriva da moltissimi studi come quello recentemente condotto in Germania, e pubblicato sulla rivista JAMA Psychiatry, che punta il dito sulle bevande zuccherate: soprattutto tra le donne, chi beveva più bibite aveva un leggero aumento del rischio di depressione maggiore, che andava di pari passo con un incremento dei batteri intestinali del genere Eggerthella. In mezzo a tantissime pubblicazioni di qualità e forza variabile, i dati a conferma di questi meccanismi sono molti, ma tuttavia non ancora abbastanza solidi da poter quantificare il peso dell’alimentazione nello sviluppo dei disturbi depressivi, né se sia possibile puntare sulla dieta per alleviarli. Anche perché è difficile affermare con certezza che, quando si osserva un’associazione, sia l’alimentazione a causare i disturbi depressivi e non viceversa.
Come sappiamo che non sia la depressione a far mangiare male?
Osservare che tra le persone con una diagnosi di depressione sono più frequenti abitudini alimentari meno sane non significa che sia il cibo ad abbassare il tono dell’umore. È probabile che in molti casi sia anzi il contrario: una persona che soffre di depressione spesso non è in grado di andare a scegliersi cibi freschi per prepararli in casa, né presta particolare attenzione al suo aspetto, non è interessata alla propria salute e tanto meno quindi alla qualità di quel che mangia. Spesso alla depressione si associa la mancanza di piacere derivante dal cibo, oltre che da tutto il resto (anedonia), che si traduce in una mancanza di appetito, a cui si tende a ovviare con alimenti pronti, surgelati o precotti. Nei casi meno gravi, è comune cercare consolazione in quelli che non a caso chiamiamo “comfort food”, che pochi identificano con verdure a foglia verde. Questo tipo di lettura della relazione tra cibo e depressione suggerirebbe una “causalità inversa”, cioè un rapporto tra causa ed effetto capovolto rispetto a quello atteso. Alcuni dei dati raccolti fin qui spingerebbero in questa direzione, per esempio quando emergono dagli studi differenze di genere spiegabili con differenze socioculturali e di ruoli sociali rispetto alla preparazione del cibo tra uomini e donne. A oggi gli esperti non escludono quindi che errori di questo tipo possano gravare almeno in parte sulla qualità e affidabilità delle conclusioni. Ma il campo di ricerca è aperto e interessante, e nei prossimi anni potrebbe aprire nuove prospettive di prevenzione e cura.
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Fonte: Il Sole 24 Ore