Cinquant’anni di referendum: nel libro a cura di Chimenti il vademecum verso il voto sulla giustizia
Ben 81 volte in poco più di 50 anni, dal 1974 con il primo e importantissimo voto popolare in favore del divorzio fino al giugno scorso con il voto fallito per mancanza di quorum sul Jobs act e sulla cittadinanza. I referendum abrogativi giunti alla fase conclusiva son stati 77, quelli costituzionali solo 4: due le riforme approvate dagli italiani (la riforma del Titolo V nel 2001 e la riduzione del numero dei parlamentari nel 2020) e due quelle bocciate (le grandi riforme della seconda parte della Costituzione volute da Silvio Berlusconi nel 2006 e da Matteo Renzi nel 2016).
Cheli: uno strumento da riformare per evitare la fuga dalle urne
Quando mancano ormai poche settimane al referendum confermativo sulla riforma costituzionale targata Nordio che introduce la separazione delle carriere tra Pm e giudici e divide in due il Csm (si voterà tra fine marzo e inizio aprile), la storia dello strumento principe della democrazia diretta nel nostro Paese è ripercorsa criticamente in un volume appena pubblicato per i tipi di Giappichelli a cura di Anna Chimenti dal titolo Le stagioni del referendum, la democrazia diretta tra populismi e social media. Autorevoli i contributi ospitati, principalmente di costituzionalisti, a partire dalla parte introduttiva affidata ad Enzo Cheli, il quale tra l’altro rilancia alcune proposte di riforma dello strumento per superare «l’astensionismo referendario usato programmaticamente» allo scopo di far fallire i referendum abrogativi, come accaduto quasi sempre negli ultimi 25 anni: «Alcuni correttivi e aggiustamenti alla disciplina vigente sono necessari e possono riassumersi in queste finalità primarie – scrive Cheli -: nell’introduzione a fianco del referendum abrogativo di un referendum propositivo legato all’esercizio del potere di iniziativa legislativa popolare; nell’aumento del peso della domanda referendaria con un incremento del numero dei soggetti richiedenti da coinvolgere attraverso l’utilizzo delle tecniche digitali; nell’eliminazione o abbassamento del quorum strutturale».
Solo quattro fin qui i voti sulle riforme costituzionali: l’attenzione degli italiani
Particolarmente d’attualità, visto il referendum confermativo sulla giustizia di primavera, è il capitolo sul voto degli italiani sulle riforme costituzionali di Stefano Ceccanti e Francesco Clementi. In questo caso, a differenza dei referendum abrogativi, non è previsto quorum, ma è un fatto che tre volte su quattro il 50% è stato superato, fino al arrivare al 64% di affluenza nel 2016 (solo nel 2001 ad esprimersi sulla riforma federalista del Titolo V fatta dal centrosinistra fu poco più del 34% degli italiani). Segno che quando si tratta della Costituzione gli italiani vogliono dire la loro con chiarezza, e chissà che non sia così anche sul referendum sulla giustizia.
Ceccanti e Clementi: agire contro il rischio politicizzazione dei referendum costituzionali
Il rischio di politicizzazione del referendum è tuttavia ancora più forte nel caso dei referendum sulle riforme costituzionali, come insegna il caso di Renzi che chiamò al voto politico sul suo governo e fu costretto per questo a dimettersi da Palazzo Chigi dopo la sconfitta. Da qui il warning di Ceccanti e Clementi, con un occhio al prossimo appuntamento referendario che rischia di trasformarsi in un voto pro o contro il governo Meloni perdendo così di vista le questioni di merito: «Il referendum costituzionale è uno strumento prezioso della democrazia italiana, pensato dai costituenti come garanzia di equilibrio e partecipazione. Tuttavia, la sua applicazione concreta ha mostrato limiti, distorsioni e usi impropri, che ne hanno ridotto l’efficacia e aumentato il rischio di conflittualità politica – scrivono Ceccanti e Clementi -. Serve dunque che sia gestito meglio proprio per non indebolire la sovranità popolare, ma rafforzarla, rendendola uno strumento effettivo di partecipazione responsabile, in una democrazia costituzionale matura, il cui giudizio sia effettivamente sul merito delle innovazioni proposte e non un “test” sul governo pro tempore».
Mancina: la diffidenza del Pci ha segnato la prima stagione referendaria
Politicamente significativo è poi il capitolo a cura di Claudia Mancina, filosofa, dal titolo “Le sinistre e i referendum”, dal quale emerge come il Pci fin dai tempi di Palmiro Togliatti e le sue successive trasformazioni abbia avuto un atteggiamento sostanzialmente conservativo verso le innovazioni proposte dai quesiti: dalla riluttanza iniziale sul divorzio, soprattutto per il timore di compromettere il rapporto con la Dc in tempi di compromesso storico e più in generale il rapporto con l’elettorato cattolico, fino alla netta sconfitta politica nel referendum sulla scala mobile voluto dall’allora premier Bettino Craxi.
Fonte: Il Sole 24 Ore