Confessioni di una vittima di professione

Confessioni di una vittima di professione

Andrew Boryga è un giovane giornalista freelance cresciuto nel Bronx quando si rende conto che tutti i giornali con cui ha a che fare, «New York Times» compreso, vogliono da lui la stessa cosa: che scriva storie legate al suo difficile passato e alla sua educazione. Altro da lui non gli interessa. Anche quando propone argomenti diversi, si sente chiedere di rimpinguare la narrazione con elementi della sua biografia. È così che, per dieci anni, si mette a lavorare a Vittima.

Protagonista è Javier, ragazzino cresciuto nel Bronx col suo amico Gio. Le loro giovanissime mamme, entrambe portoricane, sono amiche, i padri sono assenti. Quello di Javier ogni tanto ricompare, tallonato dalla polizia, tra una furiosa litigata e l’altra con l’ex compagna – che tiene duro, non si fa mettere i piedi in testa né da lui né dalla vita e trova anche il tempo per portare il figlio in biblioteca e cucinare per lui. Il padre è un «imprenditore»: spacciatore, estorsore, capobanda, gangster. Cambia macchina alla stessa velocità con cui cambia donna. Finché, portatosi Javier a Porto Rico sperando di fare di lui un macho come si deve, è freddato sotto gli occhi del figlio da un uomo che aveva umiliato.

Quando accade, la madre di Gio non c’è già più, lo cresce la nonna in un angolo del suo monolocale. «Lo sai, mia mamma non è morta per un incidente, Javi» riesce a dire una sera Gio, sbronzo: «Voleva morire». Adolescenti, le loro vite si divaricano: Gio si avvicina a una gang, lo attirano i soldi, il senso di forza e allo stesso tempo di protezione che questa offre, inizia a spacciare e presto si trova condannato a dieci anni di carcere; Javier, lusingato da un’insegnante di lettere che pensa abbia talento, si affida a un tutor inviato nella sua scuola di quartiere per assistere gli studenti più dotati. E così scopre un mondo che gli sfuggiva: «Ascolta, Javier. Sarò onesto – gli dice questo un giorno – . Io non ho mai avuto un amico finito in prigione. Né una persona di famiglia. Sono un uomo bianco privilegiato. Ma non sono cieco. La conosco la verità. E la verità è: persone di comunità come la tua vengono mandate in prigione di continuo. Nessuno vuole ammetterlo, ma il mondo è tutto un imbroglio progettato perché uno come te finisca morto o in prigione. Da tanti punti di vista, tu stai cercando disperatamente di uscire strisciando da un morboso percorso a ostacoli. Mentre per uno come me è tutta una passeggiata. E questa non è colpa tua. È colpa nostra». È lui a parlargli per la prima volta di «oppressione sistemica», «privilegio» e a suggerirgli di sfruttare la sua storia per entrare nelle migliori università, che, dice, hanno bisogno di gente come lui.

Javier ci sta. Ma la sua vita gli pare abbastanza normale, almeno tra le persone che frequenta. «Tua nonna morirebbe, se tu pensassi a lei come a una povera creatura indifesa. È una guerriera. Non ha mai chiesto la carità a nessuno. Scrivi questo», lo fulmina la madre. Forza allora un po’ la mano, infiocchetta la sua biografia e la fa divenire una storia patetica e strappalacrime. Ed eccolo catapultato in un rinomato ateneo pieno di gente cui «il Bronx evocava immagini di palazzi in fiamme, sparatorie e inseguimenti in auto, rapper, e uno zoo dove correva voce fossero gli animali a mandare avanti la baracca». Quando dice di venire da lì innesca nei suoi interlocutori «un curioso genere di rispetto», cui comincia a prendere gusto, nonostante si renda conto che non implica che questi vogliano conoscerlo meglio, o anche solo passare del tempo con lui. Non solo, capisce che la sua immagine di «rifugiato» lo può aiutare a conquistare Anais, sul cui Mac sono attaccati adesivi che ordinano: «Combatti il sistema!», «Disturba!», «Paga la giusta parte». La segue agli incontri del Centro per l’Eccellenza Latina (Cel), dove ragazzi ricchi di origine latinoamericana si riuniscono alla ricerca delle loro radici e di una battaglia per giustificare il loro privilegio. Qui fanno a gara per trovare tracce di razzismo nei gesti più piccoli, per sviscerare e drammatizzare il fastidio che ne consegue, ottenendo solidarietà e fratellanza. «Non avevo mai visto nessuno prendere qualcosa di tanto piccolo e trasformarlo in un tale dramma. Quanta maestria!» osserva sarcastico Javier. Unico che viene dal Bronx, è lui il più «autentico» di tutti e alla fine conquista Anais. Sarà lei insieme alle riunioni del Cel e alle lezioni universitarie obbligatorie di sociologia dedicate alla Razza e all’Etnicità, a fornirgli il vocabolario che dà inizio alla sua carriera di vittima professionista. Sempre lei convincerà, accusandolo di razzismo, il direttore del giornale del campus a far collaborare Javier: il primo latino a scrivere su quelle colonne.

Boryga ha messo ora il suo protagonista nella sua medesima situazione: da lui vogliono solo quel tipo di storie – storie di povertà, disperazione e riscatto. Storie che mostrino l’oppressione sistemica dei bianchi sui Bipoc (Black, indigenous, and people of color), storie edificanti da sostenere e declamare per dimenticare e far dimenticare il proprio privilegio, per sentirsi migliori. Questo da qualche tempo chiede il mercato. Javier lo asseconda. Diviene via via più spregiudicato e, allo stesso tempo, convinto che l’immagine semplificata e falsificata del mondo che propina sia reale. Le sue storie – retoriche, grossolane, decisamente caricaturali, Boryga qui sfocia nel grottesco, forse anche per aumentare il contrasto con la storia reale, la confessione di Javier -, lo fanno divenire un idolo dei social, dove brandisce l’accusa di razzismo come un’arma per zittire il dissenso, iniziando una fulminante carriera di opinionista e scrittore, il cui esito catastrofico è svelato al lettore fin dalle prime pagine.

Fonte: Il Sole 24 Ore