
Contratti, clausole di ultrattività e adeguamenti evitano il vuoto in caso di ritardi
Quella del ritardo cronico nei rinnovi dei contratti collettivi è tra le critiche – talvolta fondate, talvolta rituali – più diffuse al sistema di relazioni industriali italiano. In realtà, la stagione di rinnovi del 2024 nel terziario (commercio, turismo, pubblici esercizi ma anche studi professionali e logistica) ha rimesso in carreggiata la gran parte dei contratti che interessano milioni di lavoratori, riducendo il rischio di un “vuoto contrattuale” diffuso. Vero è che nel discorso comune si citano spesso i dati Istat secondo i quali circa la metà dei lavoratori dipendenti sarebbe coperta da contratti scaduti. Ma si tratta di cifre da leggere con cautela, perché fortemente condizionate dal settore pubblico, dove il 100% dei contratti è in ritardo secondo il paradosso strutturale di accordi firmati per regolare un periodo già concluso.
Con ciò, naturalmente, non si può negare che il fenomeno esista. Va però inquadrato nelle dinamiche concrete delle relazioni sindacali, evitando generalizzazioni (il ritardo nelle telecomunicazioni, per esempio, ha una genesi diversa da quello nella grande industria metalmeccanica).
Quanto alle conseguenze, negli anni le relazioni sindacali hanno prodotto correttivi, seppur parziali. Sul piano normativo, non si crea mai un vuoto regolativo: le clausole di ultrattività, diffuse nei contratti sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, e legittimate anche dai giudici, assicurano la prosecuzione degli effetti dell’accordo scaduto.
Sul piano economico, il ritardo del rinnovo del Ccnl non coincide necessariamente con il ritardo nell’adeguamento dei minimi salariali. In alcuni casi sono previste soluzioni strutturali, come il modello della “doppia pista” nel legno-arredo, con aggiornamenti periodici dei minimi in base all’Ipca (Indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi Ue), o la clausola di salvaguardia della metalmeccanica, che àncora automaticamente gli incrementi retributivi all’Ipca depurato dagli energetici importati. In altri casi si ricorre ad accordi meramente economici – il più recente, a fine luglio, nella piccola e media industria metalmeccanica (Confapi) – con aumenti dei minimi e rinvio del negoziato della parte normativa.
Certo è che si tratta di soluzioni ponte, utili a governare le transizioni, ma che non sostituiscono i rinnovi integrali dei Ccnl. Lo dimostra bene l’esempio della grande industria metalmeccanica, dove la trattativa si è arenata, ma è destinata a riprendere in modo serrato a settembre, non solo sulle richieste salariali, ma anche su rivendicazioni di rilievo come la riduzione dell’orario di lavoro, l’accesso alla formazione professionale e la revisione dei sistemi di classificazione e inquadramento. A conferma che il contratto collettivo non è soltanto un tariffario di minimi economici, ma uno strumento vivo e dinamico di governo dei processi produttivi e delle relazioni di lavoro, da aggiornare regolarmente per mantenere aderenza alla realtà e capacità di incidere, senza ridursi a un esercizio di mera manutenzione salariale.
Fonte: Il Sole 24 Ore