
Da Gucci a Chanel, mai così tanti marchi nella stritolante e necessaria macchina del cambiamento
Per la moda si è aperta una stagione che non ha precedenti. Dopo le nomine e le separazioni che, con non poco sensazionalismo e altrettanta tranciante brutalità, hanno occupato per mesi titoli e pagine, il cambiamento è finalmente effettivo, e nulla sarà più come prima. O almeno, questo è l’auspicio generale, di chi commenta e di chi guadagna.
Tra Milano e Parigi, la quantità di marchi, grandi e piccoli, simultaneamente interessati al rinnovo è sorprendente: Dior, Chanel, Gucci, Balenciaga, Versace, Bottega Veneta, Jil Sander, Maison Margiela, Loewe, Jean Paul Gaultier, Carven. Nel dettaglio: Jonathan Anderson arriva da Dior, primo tra gli eredi di monsieur Dior a riunire in una sola funzione tutti i rami della maison, lasciando Loewe a Lazaro Hernandez e Jack McCollough, già Proenza Schouler; Demna è il nuovo plenipotenziario di Gucci dopo dieci anni di gloria da Balenciaga, dove invece si insedia Pierpaolo Piccioli; Louise Trotter, già da Carven dove la sostituisce Mark Thomas, prende in mano le redini di Bottega Veneta da Matthieu Blazy, che finalmente esordisce da Chanel. Impegno ponderoso, visto il confronto con il titano Lagerfeld. Ugualmente in tenzone con un essere mitologico, Dario Vitale da Versace rimpiazza nientemeno che Donatella, ma non sfila. Dopo quattro fulgide stagioni da Bally, Simone Bellotti è da Jil Sander, mentre Glenn Martens si avvicenda a John Galliano da Maison Margiela, e a Duran Lantink, infine, è affidato il compito di rinverdire Jean-Paul Gaultier.
È un reset su tutta la linea, che avviene in un momento particolarmente delicato per il settore, affetto da contrazione e rallentamento. Non c’è nulla che la moda ami più del cambiamento, apotropaico resistere all’obsolescenza. E non c’è nulla più del cambiamento in cui la moda speri per risollevare le sorti dei commerci, nella convinzione che nuove visioni trovino sempre nuovi clienti, o provochino conversioni di massa e quindi seguiti planetari, famelici, spendaccioni.
È una forma mentis lecita e comprensibile, però qualcosa nella temperie attuale sembra aver passato il segno, prendendo contorni grotteschi, amplificati dalla ipermediaticità che fa merce di tutto. Scrive a tal proposito con molto acume Katie Grand, fondatrice di The Perfect Magazine, in un post instagram dello scorso 20 agosto: «Ultimamente, non si riesce a scorrere il feed senza che venga annunciato, analizzato e cerimoniosamente sostituito l’ennesimo direttore creativo. La moda ha trasformato questi cambiamenti nel suo sport gladiatorio preferito – a metà tra incoronazione ed esecuzione – con i social media che si fanno Colosseo e la folla digitale che urla sangue. Le case di moda mettono in scena esecuzioni che paiono musical: i critici gongolano, gli investitori applaudono e i poveri stilisti… Lo spettacolo crea dipendenza, sì, ma è anche spietato. Dietro i meme e i titoli ci sono creativi le cui vite e il cui lavoro vengono smembrati in tempo reale».
In effetti, nella stritolante macchina del cambiamento i creativi paiono pedine intercambiabili, frutto di scelte non perfettamente chiare operate da ceo onnipotenti sovente più interessati al clickbait che alla visione. La compagine di designer che sta guadagnando la ribalta – per lo più quarantenni, con qualche eccezione – è composta da autori di grande valore, ma quale sarà il reale spazio di manovra? Sono affiancati da cmo e merchandiser dilaganti? Il messaggio sarà veicolato con chiarezza e intento? Sarà ancora e solo storytelling – farlocco e pernicioso – o si tornerá finalmente a fare vestiti di valore, che poi é quanto conta davvero? In fondo il successo del vintage anni Novanta e primi Duemila parla proprio di questo: i vestiti speciali piacciono sempre; i concetti alti per vendere inanità invece hanno le ore contate. Sempre più la moda è lavoro corale e il protagonismo adesso è condiviso invece che verticistico, ma gli ego trip congiunti dovrebbero essere tutti al servizio della visione e del prodotto, non del mero profitto o della esposizione personale, altrimenti i piani diventano fragili castelli di carta.
Fonte: Il Sole 24 Ore