Da Tel Aviv a Gaza esplode la gioia, ma restano i timori per il futuro

Da Tel Aviv a Gaza esplode la gioia, ma restano i timori per il futuro

TEL AVIV – «C’è un accordo!» grida il giornalista palestinese Saleh El-Jafarawi nel buio. Cammina fra le case chiuse, ride da solo e urla a squarciagola nella notte la notizia a chi non l’ha saputo nel Nord della Striscia di Gaza perché le case di quell’area sono rimaste senza corrente elettrica e senza connessione Internet.

Poco dopo scoppia la festa. Le persone si riversano nelle strade e nelle piazze: spari in aria, fuochi d’artificio, gente che festeggia, bambini che ballano. Una festa simile, con canzoni, sventolio di bandiere, urla e pianti di sollievo scoppia nelle stesse ore a Tel Aviv, in Israele. In quella che è stata in questi due anni ribattezzata Hostages Square, davanti all’Art Museum, si riversano in piena notte tante persone: stappano bottiglie, ridono, saltano. Da Tel Aviv a Gaza sono appena settanta chilometri, di solito sembrano posti distantissimi, ma per una giornata finalmente sembrano provare la stessa cosa: sollievo.

Einav Zaugauker, la madre di un ostaggio, Matan, è senza respiro. «Non ce la faccio a esprimere quello che provo – dice – sono senza fiato, è pazzesco». Anche Omer Shem-tov, che è stato un sequestrato a Gaza, non ha parole per dire come si sente, piange, ma di sollievo. Alcuni non nascondono la paura che qualcosa nelle prossime ore possa andare storto. «Finché non vedremo tornare gli ostaggi, fino a che non passeranno il confine non ci credo», dice Rita Lifshitz, che ha avuto due familiari rapiti il 7 ottobre, uno dei quali è morto nei tunnel di Hamas, ed è arrabbiata perché non è stata istituita nessuna commissione da parte del governo israeliano che faccia chiarezza sui ritardi nell’arrivo dell’esercito il 7 ottobre di due anni fa.

Anche a Gaza si festeggia, ma alcuni sono prudenti. «Ci siamo trovati in situazioni simili molte volte, Israele potrebbe riprendere la guerra dopo aver ottenuto il rilascio di tutti gli ostaggi, non ci fidiamo mai di loro» racconta Abu Baker, 54 anni, sfollato da Gaza City nella zona meridionale per 18 mesi, che ha perso sua figlia e i suoi nipoti nei primi 15 giorni di guerra, quando Israele ha attaccato il quartiere del campo profughi di Jabalia.

Fonte: Il Sole 24 Ore