
Dalla cuccia con amore – Il Sole 24 ORE
Passiamo oltre ai Rin Tin Tin, Rex, Lassie, Beethoven, Zanna Bianca e ai disneyani Pongo, Aristogatti e Stregatto che hanno già l’Oscar nel nostro cuore infantile. Sorvoliamo anche sugli odierni divi a quattro zampe, che fanno le passerelle assieme agli umani (vedi Richard Gere con Hakiko). E concentriamoci sui quadrupedi che hanno avuto un ruolo fondamentale per alcuni grandi registi e attori, dando, di fatto, voce a un’urgenza espressiva o aiutandone l’espressione.
Addio al linguaggio di Godard
In Addio al linguaggio Jean-Luc Godard nel 2014 aveva usato il suo amato cane Roxy per trasmettere un sentimento di frustrazione e di perdita di orientamento nel mondo, la constatazione e l’accettazione di un senso di incomunicabilità soverchiante, prodotto dal frantumarsi della civiltà della parola. A guidare l’osservazione attonita del regista di fronte alla digitalizzazione, all’incombere dell’era delle immagini narcisistiche ed estetizzanti, sono i vagabondaggi di Roxy, che lambisce il rapporto tra un uomo e una donna che si amano ma non si comprendono. La sua presenza magica riporta il senso profondo dell’esistenza in un film radicale e sperimentale che affida agli animali il compito di salvare il mondo, abbrutito e incorporale, come creature immanenti, indenni dalla vanità e vicini alla verità.
White God – Sinfonia per Hagen
Nello stesso anno un regista innovativo e rivoluzionario, l’ungherese Kornél Mundruczó (autore dell’indimenticabile film sull’Olocausto, Quel giorno tu sarai, 2021), lancia un messaggio politico al governo di ultra destra, guidato da Viktor Orbán, attraverso la storia di un branco di cani randagi che si vendica contro l’imposizione in Ungheria di una tassa ai padroni di cani di razza non pura, invitandoli, di fatto, a sbarazzarsene. White God – Sinfonia per Hagen si intitola quello strano film che ha vinto Un Certain Regard a Cannes. Un altro Luc, senza il Jean, che di cognome fa Besson, dopo aver chiesto a Matteo Garrone di usare lo stesso titolo di un suo film del 2018, porta nel 2023 sugli schermi Dogman, una favola nera con una forte carica personale. Il protagonista è un emarginato paraplegico (Caleb Landry), che vive in simbiosi con un branco di cani da lui addestrati e grazie a cui interviene a risolvere casi di ingiustizia. Nel film c’è tutta l’infanzia solitaria di Besson, vissuta in simbiosi, dopo il divorzio dei genitori, con il cane Socrate.
L’epica di Garrone e Burton
L’altro Dogman, quello di Garrone, ha la stessa vena thriller di quello di Besson, ma è originato dalla cronaca, il delitto del canaro, il cui protagonista è un toelettatore di cani, che si barcamena tra un lavoro legittimo e lo spaccio. Così come ne L’imbalsamatore (2002), film che aveva lanciato Garrone, dove sempre dagli animali si parte, ma qui impagliati. È stata, invece, una nostalgia fisica a ispirare Tim Burton per Frankenweenie, in cui il suo cane Pepe riveste le sembianze di Sparky, investito da un’auto, che torna a vivere grazie agli esperimenti galenici del suo padrone. Stile gotico in stop motion e molta dolcezza del regista più affezionato alla poesia dell’aldilà.
Wes Anderson e Flow
Wes Anderson, invece, usa L’isola dei cani per affidare all’animazione, cara all’infanzia, il suo film più duro, metaforico e pessimista, in cui creature a quattro zampe riproducono la ferocia umana, che va oltre alla difesa e alla fame, nell’isola-discarica, in cui i cani sono confinati. Di segno opposto, Flow-Un mondo da salvare di Gints Zilbalodis, dove gli animali sono protagonisti di una fuga durante un’alluvione biblica e hanno movenze animalesche. È questo a renderlo speciale, per il distacco dall’imperante umanizzazione disneyana.
Fonte: Il Sole 24 Ore