Dall’Ai alla violenza di genere, parola alle nuove generazioni

Dall’Ai alla violenza di genere, parola alle nuove generazioni

I giovani non sono ingenui, anzi sono consapevoli che l’Ai farà progressivamente sparire delle professioni oggi esistenti: lo pensa l’80% del campione. Il 76% è anche convinto che si andranno a creare nuove mansioni che, però, curiosamente non riscuotono grande interesse al momento: il 53% è motivato dalla novità, ma un buon 47% si sente distante o comunque non in grado di esprimersi con cognizione sul tema.

Dunque, davanti a uno strumento che potrebbe rivoluzionare scuola e professioni, occorre predisporre percorsi che aiutino i giovani a capire come sfruttarlo, senza compromettere apprendimento e attenzione. «Di Ai oggi ne parlano tutti ma non esiste un programma di formazione serio: non possiamo darla in mano ai ragazzi senza educarli all’uso», chiosa Alfieri. «Nelle scuole mancano momenti costruttivi finalizzati ad addestrarli su vantaggi, svantaggi e limiti dell’intelligenza artificiale e resta il pericolo che, ancora una volta, la tecnologia possa precedere le regole».

Social e percezione di sé

Quando si tratta di social, le preoccupazioni per un uso smodato (e poco sano) sono evidenti. Ma, guardando ai dati, si nota un capovolgimento importante della prospettiva dei ragazzi intervistati nel momento in cui valutano l’approccio dei coetanei e, successivamente, la loro relazione coi social. Gli aggettivi più scelti per descrivere il rapporto che ragazzi e ragazze della loro età hanno con piattaforme come Instagram e TikTok è, per il 23% del campione, «ossessivo», seguito a stretto giro da «tossico» (segnalato dal 18%) e «intenso» (9%). Solo in fondo alla classifica, con uno scarno 2%, troviamo «sano» e «costruttivo». Al netto di un 31% che manifesta emozioni positive sul tema, è il 69% che parla di emozioni negative a fare rumore. Esattamente il contrario di quel che succede quando sono chiamati a parlare delle loro abitudini online che, dal 17% degli intervistati, vengono descritte come «sane», nel 15% dei casi «attive» e solo nel 2% come «tossiche». Con un ribaltamento rilevante: quando pensa ai social, il 66% nutre emozioni positive, a fronte di un 34% che ha un parere negativo.

«C’è un gap significativo tra la percezione che hanno di loro stessi e quella che hanno degli altri», riflette Alfieri. «Forse pensano di saper usare bene i social ma, come ha notato anche Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro, quando gli si chiede un’opinione sui coetanei riportano probabilmente un giudizio indotto dagli adulti, quello che credono di dover dire e che pensano possa tranquillizzarli. Spostandosi sull’esperienza personale, invece, dicono esattamente quel che sentono e vedono. Come si è notato anche nelle domande sulla felicità: si definiscono personalmente felici ma la percentuale scende nel giudicare la felicità degli altri». Discrepanza che si ritrova anche quando sono interrogati su un’ipotetica sparizione dei social: se pensa ai coetanei, il 25% del campione li immagina reagire, davanti a questo scenario, con ben poca calma e tanta ansia in attesa della riattivazione. E il 24% parla di spaesamento e disorientamento. Ma se si trovassero loro in questa situazione, il primo “sintomo” sarebbe l’indifferenza (26%).

«Non credo che vietare i social o i cellulari possa portare a qualcosa di buono», aggiunge la direttrice. «Occorre agire a monte, aiutandoli a gestire le emozioni nella vita reale, stringendo relazioni di qualità, parlando con loro: mancano figure di riferimento e “adulti significativi”, il tempo che tanti genitori dedicano oggi ai ragazzi è poco, si focalizzano su tanti aspetti ma magari li lasciano soli davanti al computer o al telefono per ore. Serve seguirli, serve dialogo».

Fonte: Il Sole 24 Ore