Danimarca, la crisi di due colossi nazionali dimezza la crescita 2025

Danimarca, la crisi di due colossi nazionali dimezza la crescita 2025

COPENAGHEN – La presenza minacciosa e ricorrente di droni sopra alla Danimarca ha messo in luce la vulnerabilità dello spazio aereo europeo. Sul fronte danese non è l’unica fragilità. Come in Finlandia negli anni 90 e in Islanda nel 2008-2009, l’andamento di una manciata di grandi aziende costringe il paese scandinavo ad interrogarsi sul futuro della sua economia. Nel mondo globalizzato è andata scemando la proporzione tra taglia delle imprese e grandezza dell’economia nazionale.

In poche settimane, due società danesi hanno rivisto al ribasso i loro conti. La multinazionale farmaceutica Novo Nordisk ha perso la sua posizione di leader sul mercato americano delle medicine contro l’obesità. Ha quindi avvertito che sarà costretta a tagliare 9mila posti di lavoro di cui 5mila in Danimarca. Nel contempo, il gigante delle rinnovabili Ørsted è stato costretto a un aumento di capitale da otto miliardi di euro, dopo il recente veto americano contro un parco eolico sulla costa Est degli Stati Uniti.

La reazione del governo Frederiksen è stata rapida. A fine agosto, ha rivisto al ribasso le stime di crescita del paese per il 2025, dal 3% all’1,4% (rispetto al 3,7% registrato nel 2024). Economisti di mercato si aspettano che il contributo di Novo Nordisk all’export di merci scenderà a 1,3 punti percentuali, rispetto ad 8,1 punti percentuali l’anno scorso. La crescita delle esportazioni di beni sarà di appena il 2,7% quest’anno, rispetto al 10,5% nel 2024.

La Danimarca è un paese piccolo, sei milioni di abitanti, ma dall’economia tradizionalmente fiorente. Oltre a Novo Nordisk e Ørsted, altre società sono note a livello mondiale: l’armatore Maersk, il produttore di birra Carlsberg, il gruppo di logistica DSV, il costruttore di eoliche Vestas e di giocattoli Lego. «Le 10 più grandi aziende pesavano per il 20% dell’economia nazionale negli anni 70, 80 e 90; oggi siamo intorno al 40%», spiega Martin Jes Iversen, professore alla Copenhagen Business School.

Fonte: Il Sole 24 Ore