
Dentro il caschetto, fuori dal tempo: la realtà virtuale cerca ancora una storia
Indossare un caschetto VR nel 2025 per godersi uno spettacolo cinematografico è un atto cyberpunk, un gesto post-moderno, qualcosa che è già vintage perché appartiene a un passato recente. Nonostante le numerose sperimentazioni, i cinema con il visore non sono diventati mainstream, così come neanche la VR nel videogioco e sul televisore di casa. Mentre ha trovato applicazioni importanti nel campo dell’istruzione, nella manutenzione e nella progettazione.
Questa premessa è doverosa quando assisti come giurato a un evento di corti in VR. Quest’anno il concorso Visioni VR, realizzato in collaborazione con il Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci, si è tenuto a metà settembre, alcuni giorni fa, e prevedeva 6 tra le migliori produzioni nazionali e internazionali, che spaziano dai documentari sull’attualità alla pedagogia, dal viaggio fisico a quello interiore, fino al racconto di avvenimenti cruciali della storia recente.
Anche nelle edizioni precedenti, Visioni VR è stato un momento per entrare nelle teste di registi, sceneggiatori e artisti digitali che credono – o hanno creduto – in questa tecnologia. Per capire meglio i confini di queste sperimentazioni, a che punto sta per esempio il dialogo con il linguaggio del videogame, quanto il racconto passivo dell’audiovisivo possa essere posseduto dall’interattività propria della realtà virtuale.
Quest’anno due opere hanno colpito più di altre l’immaginazione di pubblico e critica.
«Sweet End of the World!» di Stefano Conca Bonizzoni (Officine Creative – Università degli Studi di Pavia, Motion Pixel e Notte Americana) è un’esperienza immersiva in realtà virtuale potremmo dire classica. Siamo dentro un’esperienza che non ha nulla di virtuale nel senso proprio del termine. È girato con telecamere speciali che riprendono in tutte le direzioni. Lo spettatore, con un visore VR, può guardarsi intorno come se fosse «dentro» la scena, ma non può spostarsi liberamente nello spazio (sei fermo in un punto). È il formato più comune per filmati reali.
Fonte: Il Sole 24 Ore