Dieselgate, dieci anni dopo lo tsunami che travolse l’industria dell’auto e nulla fu più come prima

Dieselgate, dieci anni dopo lo tsunami che travolse l’industria dell’auto e nulla fu più come prima

Le polveri sottili derivanti dalla marcia di un’automobile provengono in minima parte dallo scarico, che secondo studi accreditati incidono per meno del 10%. Una percentuale ben maggiore, intorno al 25/35% deriva dall’usura di freni e pneumatici. Oltre la metà è polvere che viene sollevata dal suolo, tanto che quando piove i limiti non vengono mai nemmeno sfiorati. Visto che è la circolazione molto più che il motore e il suo scarico a determinare la quantità di PM, la soluzione sarebbe quella di lavare le strade. Un esperimento condotto alcuni anni fa da Dekra a Stoccarda lo ha confermato: lavando le strade i giorni di sforamento dei limiti diminuiscono drasticamente. Torniamo al motore che pulisce l’aria. La combustione è fatta su una miscela di carburante e aria, questa immessa ovviamente dall’esterno e quindi piena di PM. Dopo la combustione, i filtri molto sofisticati del sistema di scarico trattengono non solo le particelle provenienti dal gasolio ma anche quelle già presenti nell’aria. Inoltre, nel processo di combustione si forma un agglomerato di particelle, il cosiddetto soot cake, che unisce insieme sia quelle più grandi, PM10, sia quelle molto piccole, PM2.5, in modo che entrambe vengano trattenute nel filtro.

Gli Stati Uniti, mai abbastanza sensibili ai temi ambientali e tantomeno se in chiave energetica, non avevano sviluppato una domanda significativa per il diesel tale da indurre l’industria a investire in R&S. Però da tempo andava crescendo una domanda per le vetture tedesche equipaggiate con questo motore, più come segno distintivo di certe élite costiere e affluenti che per reale apprezzamento. La bilancia commerciale sulle auto era enormemente sbilanciata a favore della Germania. Le auto tedesche che sbarcavano ogni anno in America erano circa dieci volte quelle americane che attraversavano l’oceano sulla rotta inversa. Intendiamoci, non erano cifre da guerra dei dazi né prodotti strategici per la difesa, ma certo se le importazioni tedesche fossero state prese un po’ a calci nessuno al Dipartimento del Commercio avrebbe alzato un dito.

I media riportarono la notizia della manomissione della centralina operata dai tecnici Volkswagen. Non era il primo scandalo che interessava l’industria automobilistica. Due esempi. Negli anni ’70, la Ford Pinto divenne tristemente famosa per i suoi problemi di sicurezza. Questa sub-compact aveva un difetto di progettazione che la rendeva vulnerabile agli incendi in caso di tamponamento. Nel 2004 fu la volta delle Toyota, il cui pedale dell’acceleratore non tornava su e l’auto proseguiva la marcia in velocità, causando incidenti. In entrambi i casi, i media furono costretti a riportare di vittime, che fortunatamente non ci sono state per il caso delle centraline Volkswagen. Eppure, non si ricorda un “tank-gate” che abbia messo in discussione la dotazione di serbatoio di tutte le auto e nemmeno un “pedal-gate”, per vietare di equipaggiare le macchine con l’acceleratore. Furono archiviati come difetti di progettazione o di produzione, irrorate le pene e le sanzioni del caso e poi basta: girata pagina si andò avanti.

Nel caso delle centraline la stampa, con poche eccezioni, si è regolata diversamente. Innanzitutto, ha puntato l’indice sul tipo di motore e non sulla centralina manomessa. Era un “centralina-gate” e invece fu etichettato “diesel-gate”. L’alterazione era stata compiuta da Volkswagen, dunque sarebbe stato un “Volkswagen-gate”. Niente, fu “diesel-gate”. Questo fatto dà la cifra della bassezza della stampa. Non solo, indica pure la presenza di un movente. Perché lasciare stare un bersaglio grosso come Volkswagen, nascondendolo dietro un tipo di motore prodotto da tutti e spalmando di fatto la responsabilità sull’intera industria? Perché c’erano già allora forti pressioni contro il motore diesel, tali da rendere poco succulento il boccone Volkswagen e certamente non finalizzato alla causa. Non è chiaro chi fossero i mandanti finanziatori dei vari movimenti ambientalisti, ma il fatto è che il bersaglio divenne la tecnologia e la supremazia europea sul motore diesel.

In verità, nelle prime settimane, i media avevano puntato anche su Volkswagen, riportando all’opinione pubblica che questo scandalo aveva distrutto la credibilità del Gruppo e la fiducia che i clienti riponevano nei suoi prodotti. Anche in questo caso, si trattava più di un’aspirazione che di un fatto. Quelle firme volevano descrivere un mondo che ritenevano corretto, ossia di clienti che avrebbero bandito quei marchi dalla shopping list automobilistica. Peccato che quel mondo non esistesse. Sì, a caldo ci fu un atteggiamento di condanna e anche di forte disappunto da parte dei clienti, ma questo si tradusse in una flessione delle vendite tutto sommato contenuta. Negli anni successivi il valore dei marchi Volkswagen presso i clienti rimase ben elevato e solido, come anche le vendite. Un’analisi condotta dal Centro Studi Fleet&Mobility rivelò che a ridosso dello scandalo, in autunno, le vendite di Volkswagen e, in misura minore, di Audi, subirono una flessione significativa. Ma l’analisi disse anche che chi non aveva acquistato Volkswagen non aveva optato per altri brand, ma era solo uscito dal mercato che infatti era calato. Temporaneamente. Già verso il finire dell’anno le vendite erano tornate ai livelli pre-scandalo e con esse il mercato aveva ritrovato i suoi volumi. Insomma, i fatti dicevano che sì, i manager Volkswagen avevano truccato una centralina e che no, non si fa, però i prodotti erano comunque ottimi e dunque valeva la pena acquistarli. Il grafico riporta il valore del brand, misurato da Interbrand, società specializzata nella misurazione del valore dei marchi, stimato in 13,7 miliardi di dollari nel 2014 e svalutato nei due anni successivi a 12,5 e poi a 11,4. Eppure, già nel 2018 veniva rivalutato a 12,2. Lo scorso anno il brand era accreditato di un valore mai toccato prima nella sua storia: 15,1 miliardi. Il valore di Audi non venne neppure sfiorato dallo scandalo e continuò a crescere anno su anno. Nel 2018 aveva eguagliato Volkswagen e nel 2023 valeva 16.4 miliardi.

Fonte: Il Sole 24 Ore