
Dietro le sbarre, il potere terapeutico del teatro
L’arte che ti salva e ti rimette al centro. Quella del teatro per Salvatore Striano non è stata solo terapeutica ma è stata la possibilità di decostruire tutto ciò che sapeva su di lui, dandogli un nuovo linguaggio, perché quello della criminalità mancava di profondità. «Il teatro in carcere è un toccasana, la recidiva si abbassa più dell’80%. Le persone che si trovano in galera e hanno la fortuna di partecipare ai laboratori teatrali smettono di delinquere. Non ti dà nessuna sicurezza che diventi un’artista o un attore. Io quando sono uscito dal carcere non avevo nessuna illusione di continuare a fare l’attore. Però una cosa l’ho sentita subito su di me. Non volevo più commettere reati. Ci sono educatori, ci sono avvocati che hanno delle esperienze da ex detenuti e questo è successo grazie alle attività che sono state svolte internamente. Una vera magia. A me, il teatro, non solo mi ha fatto smettere di delinquere, ma con la sua disciplina mi ha dato un nuovo linguaggio, mi ha dato dei nuovi atteggiamenti perché chi delinque ha un vocabolario molto povero dove si parla sempre delle stesse cose». Mentre prima Salvatore Striano il teatro lo conosceva solo perché ci andava per rubare le «pellicce alle donne facoltose» prigioniero e in ostaggio della camorra, figlio di crimini del malaffare, in carcere si è finalmente sentito libero, perché sul palcoscenico ha capito che poteva perdonarsi: «Esci dalla giungla e non ti interessa più parlare di certe cose, vuoi conoscere, vuoi parole nuove, storie nuove. Ho iniziato che stavo raschiando il suolo, perché ho perso mio padre e mia madre mentre ero in carcere e l’unica cosa che mi faceva distrarre erano l’alcol e gli psicofarmaci. Un giorno ho avuto in mano un copione e non solo ho fatto pace con la mia mamma (che non volevo più sentirla perché non accettavo il fatto che lei fosse morta mentre ero in carcere), io l’ho portata in scena. Il mio primo ruolo è stato Donna Amalia in Napoli milionaria. È stata una cosa incredibile: io ero nella pancia di mia madre e me la sono rivista dentro di me. Io a lei. É stata veramente una gioia. L’arte deve proprio toccarti, se no non è arte».
Fondi del Governo
Anche il Ministero della Giustizia, con fondi recentemente stanziati, ha riconosciuto l’importanza della cultura come strumento di reinserimento. Ma la strada è lunga: «Servono fondi, ma anche visione politica e umana». affermano Mirella Cannata e Carlo Imparato di Teatro Necessario. «Non si può parlare di riabilitazione se non si offrono spazi veri, continui, strutturati». Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio stanzia circa 74 milioni di euro per avviare percorsi di orientamento, formazione e housing sociale delle persone sottoposte a misura penale esterna o in uscita dagli istituti penitenziari, e attivare una rete per favorirne il reinserimento socio – lavorativo. In quest’ottica, i laboratori e attività in ambito teatrali costituiscono una base da valorizzare e dal quale partire per costruire percorsi che abbiano una dimensione artistica ma anche formativa, al fine di rendere il carcere non solo un istituto di pena ma anche un istituto di cultura, un luogo dove le contraddizioni e le energie presenti vengano valorizzate e trasformate in senso costruttivo e propositivo e non solo in senso contenitivo.
Dal palco alla professione: storie che continuano fuori
A Genova, nel carcere di Marassi, l’arte teatrale è diventata un progetto strutturato e duraturo. Nato nel 2005 per iniziativa di Mirella Cannata – un’insegnante di storia dell’arte – e del regista Sandro Baldacci, il Teatro dell’Arca, intitolato al regista recentemente scomparso, è oggi un punto di riferimento nazionale. Con più di 500 detenuti coinvolti, 20 spettacoli prodotti e migliaia di spettatori ogni anno, l’iniziativa dimostra che la cultura in carcere può essere riabilitazione concreta. Dal 2015, grazie a una direzione illuminata, è stato costruito all’interno della struttura un vero teatro in legno, unico in Italia, completamente aperto alla cittadinanza. «Appena entrano in teatro, i detenuti smettono di sentirsi tali. È uno spazio dove si respira libertà, dignità, responsabilità», racconta l’ideatrice.
Non tutti diventano attori, ma molti trovano nel teatro una strada nuova. È il caso di Gianluca, ex detenuto coinvolto nel laboratorio luci del Teatro dell’Arca: «Quando il tecnico luci professionista mancò il giorno del debutto, lo sostituì lui. Da lì, una carriera: oggi lavora per concerti importanti, da Vasco Rossi ai Negramaro. Come Striano, anche lui oggi torna nelle scuole a raccontare la propria storia». Questo dimostra che il teatro in carcere non è solo espressione artistica, ma formazione, scoperta di sé e degli altri. La recitazione è solo la superficie: dietro, ci sono mestieri, competenze tecniche, senso di squadra, crescita personale.
Una rete in crescita, ma serve continuità
Il problema, però, è più ampio. Striano denuncia una realtà carceraria ancora arretrata: «In Spagna, potevo vedere mia moglie in intimità una volta al mese. In Italia, per sette anni niente. Quando sono uscito non riuscivo nemmeno più a stare con una donna. È disumano. La mancanza di affetto incattivisce, peggiora tutto». Allo stesso modo, la mancanza di lavoro e le disuguaglianze economiche rendono la detenzione ancora più spietata: «Chi è povero resta dentro. E dentro i poveri diventano ancora più poveri. I boss li comprano con un francobollo». Esperienze come il Teatro dell’Arca sono oggi parte di una rete più ampia, “Per Aspera ad Astra”, promossa da ACRI, come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza”, un importante progetto, con capofila la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, che sostiene laboratori teatrali in 14 carceri italiane. Il progetto di Genova è uno dei più avanzati, e si affianca a realtà come la Compagnia della Fortezza di Volterra o il Teatro Libero di Rebibbia, diventati noti anche a livello internazionale. Ma la strada è lunga: «Servono fondi, ma anche visione politica e umana», affermano dal Teatro dell’Arca. «Non si può parlare di riabilitazione se non si offrono spazi veri, continui, strutturati».
Fonte: Il Sole 24 Ore