
E a Natale si cantava il «Kyrie Eleison» dell’asino
Ce ne sono ancora tante di lusignis, le lucciole, in Friuli, basta salire in Carnia o abbandonarsi a una notte d’estate sulle colline moreniche udinesi. E sono la luce che accende la fantasia, il sogno, le voci antiche, il desiderio di rifugiarsi nel ricordo e trovare pace. Le insegue anche Angelo Floramo, Premio Nonino Risit d’Aur nel 2024 e scrittore prolifico, con il suo libro Vita nei campi. Storie di terra, uomini e bestie, erede dell’omonima trasmissione radiofonica che tanto successo ha in Friuli. Le racconta così, con la meraviglia di un bambino e la coscienza di un uomo ormai adulto che riconosce quanto il tempo sia irripetibile: «Correre scalzi a perdifiato dentro alla magia delle lucciole era un’esperienza che conservava tutto il sapore dell’incanto. Come se le fiabe raccontate sul bordo del letto, prima di dormire, prendessero vita tutte in una volta e cominciassero a fluttuare intorno, in una vertigine di sensazioni». Floramo racconta con gusto e un sorriso sornione, fila storia e storie perché, da bambino, «i sonni, profondissimi e quieti, si popolavano di sogni, eccitati dalla vita all’aria aperta».
Quella vita è pagine odorose, sospese fra campi e boschi, perse in quadri di sagace autosufficienza e di miseria orgogliosa. È tradizione e civiltà contadina. Nessun compiacimento, solo il racconto partecipato di un mondo che vive ancora nei piccoli villaggi e in una lingua, quella friulana, plasmata da invasori agguerriti e confini, per fortuna, ricchi e porosi: «è un privilegio, per me, poter raccontare quella storia che ancora oggi sopravvive, non solo nella memoria, ma in certe tradizioni viscose, che si appiccicano al tempo delle sagre e a quello della festa, in consuetudini che diventano paesaggio, sapore, colore. Alle volte, nostalgia». Il racconto è un vero lunario, tutto scorre, i mestieri dei campi e delle donne, la storia e l’oggi, al ritmo delle lune, quelle che contadini e boscaioli seguivano per andare oltre la fatica del vivere. Se avete in programma una vacanza in Friuli, non c’è guida migliore che questo libro.
Gli occhi di Floramo bambino rivedono la stalla e la latteria, la malga e le chiese. Sacro e profano, cielo e terra, alto e basso, Natura e Umano si mescolano per dare unicità al Friuli. Come quella legata agli asini: la notte di Natale, almeno fino agli inizi del Duecento, era consuetudine che i presbiteri intonassero il Kyrie Eleison Asini con una voce che nel canto gregoriano imitava l’asprezza del raglio e un asino campeggia tra i mosaici dell’Aula Nord della Basilica di Aquileia. Non meno unico, ad esempio, è il culto di San Giovanni Battista, spesso rappresentato con un’aureola di fiori di zucca, quasi una scia dorata per il santo che veglia sulle stagioni e che ha tratti simili al dio Belenos, potente e carismatica divinità panceltica venerata nell’agro aquileiese almeno fino al III secolo d.C. E il 24 giugno, quando si festeggia il santo, è tradizione raccogliere decine di erbe, fra cui felce, aglio, ruta, salvia, cumino, camomilla e rosmarino, artemisia e verbena, per il mac di San Zuan, il mazzo di San Giovanni, potente talismano contro ogni forma di Male, raccolto nel cuore delle tenebre da poco sfumate nell’alba del nuovo giorno.
Le righe si arrampicano fino alle cime della Carnia, si insinuano fra gli insaccati odorosi delle cantine: i confini fra tempo del sacro e del profano sono invisibili, svelano luoghi misteriosi dove tutto prende vita, ricordi, volti, tradizioni. C’è tanta poesia e suggestione in questa terra fortemente matriarcale dove la lingua racconta il vivere. Pustot, ad esempio, indica tutto ciò che non è antropizzato, libero dal controllo dell’umano: è «un’antica parola di ceppo slavo, a ricordare le contaminazioni meravigliose di questa nostra civiltà contadina, cresciuta sul bordo dei mondi, a cavallo tra le culture, le tradizioni, gli accenti che gli antenati disseminarono ovunque: nei toponimi, nel nome degli alberi, dei ruscelli o delle colline».
Ci sono vigneti rigogliosi con vitigni autoctoni, che finiscono ai quattro angoli del mondo, e boschi da curare, come quello in Valcanale controllato dalla diocesi di Bamberga (Baviera). L’Arcivescovado impose regole per il bosco, lo sfruttamento e la protezione con statuti datati 1584, tutti dovevano vivere, boscaioli, carpentieri, bottai, falegnami: «Noi per primi, che siamo i Vescovi reggenti di Bamberga, vogliamo emanare codeste leggi per proteggere i nostri boschi».
Fonte: Il Sole 24 Ore