Electric Dreams: alla Tate Modern va in mostra l’Archetecnologia

Electric Dreams: alla Tate Modern va in mostra l’Archetecnologia

La mostra non è solo una retrospettiva storica: è un invito a riflettere sul nostro presente iperconnesso e sul ruolo della tecnologia nell’arte. L’esposizione invita a considerare come le intuizioni degli artisti del passato possano offrire spunti per comprendere e affrontare le sfide tecnologiche del presente.

Dall’interazione alla partecipazione

Nuove discipline come la cibernetica spingevano gli artisti a ripensare il rapporto tra opera e pubblico: non più spettatori passivi, ma partecipanti attivi di un sistema comunicativo. Le installazioni diventano immersive, manipolabili, sensoriali. È il caso di Liquid Views (1992), di Monika Fleischmann e Wolfgang Strauss, dove il visitatore si specchia in una superficie digitale, in un gioco di narcisismo elettronico che anticipa l’era dei selfie.

Nel frattempo, i computer si riducevano da gigantesche macchine industriali a dispositivi domestici: una miniaturizzazione che ha aperto nuove possibilità creative. Molti artisti lavoravano in laboratorio come ingegneri dilettanti, riciclando elettronica di consumo o accedendo a costose apparecchiature tramite reti di collaborazione.

Fra le opere in esposizione

Nel cuore pulsante dell’esposizione c’è un’opera che racconta molto del rapporto tra immagine, tecnologia e sperimentazione visiva: si tratta di Matrix II, creata dai pionieri della videoarte Steina e Woody Vasulka, che ha contribuito alla nascita della videoarte come linguaggio sperimentale, con l’arte che incontra la tecnologia “domestica”. In quest’opera ipnotica, forme geometriche si muovono fluidamente attraverso una griglia di monitor CRT – i classici televisori a tubo catodico che hanno dominato il mercato fino ai primi anni 2000. I Vasulka non si limitavano a utilizzare questi schermi come semplici supporti, ma ne mettevano alla prova i limiti fisici e visivi. Ogni monitor viene trattato come uno strumento vivo, da “suonare” con onde elettroniche, fino a ottenere un movimento visivo che richiama il comportamento stesso del segnale elettrico.

C’è chi, come Atsuko Tanaka, ha vestito letteralmente l’elettricità: il suo Electric Dress, creato nel 1956 e composto da lampadine industriali, fili e tubi al neon, è una delle immagini più iconiche dell’esposizione che rifletteva la nuova elettrificazione delle città giapponesi post-belliche. Una “pittura che si muove”, come la definiva lei, questa idea attraversa tutto il suo lavoro iniziale ed è simbolo di un’arte che si fa corpo e azione. La fotografia esposta ritrae l’artista mentre si prepara per una performance durante la Seconda Mostra d’Arte Gutai, all’Ohara Hall di Tokyo nel 1956.

Fonte: Il Sole 24 Ore