Emily Dickinson e la meraviglia infinita della vita

Emily Dickinson e la meraviglia infinita della vita

 

 

Appare nella forma più intima e tagliente la voce di Emily Dickinson, una poeta che ha fatto della solitudine non un rifugio, ma un laboratorio di percezione estrema della realtà in cui è immerso l’individuo. La curatela editoriale proposta nelle “Cinquantacinque poesie” (Crocetti, 2025, pp. 184, euro 15) — selezionate da Jorie Graham, tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley, poi commentate sempre da Borio — è delicata e rispettosa, e restituisce la vibrazione quasi oracolare della poesia dickinsoniana. Due letture capitali aiutano ad accostarsi a questo corpus infuocato di versi: quella di Harold Bloom, per cui Dickinson è l’epitome della mente poetica americana, capace di riscrivere le Sacre Scritture e i canoni romantici dall’interno, e quella di Ted Hughes, che la considera una figura profetica, dai toni sciamanici, attraversata da una visione cosmica e perturbante, per cui l’amore, la morte e il divino si confondono in una sola esperienza del limite umano.

Il panico del nulla

Accanto agli indimenticabili “Poiché non potevo fermarmi per l’angelo della Morte –”, “Ho sentito una Mosca ronzare – stavo morendo –”, da subito il lettore ritrova testi meno frequentati, ma ugualmente travolgenti, così “L’Anima ha momenti Bendati –” o “Non era la Morte, perché mi sono alzata”, nei quali emerge il “panico del nulla” di cui argomenta Hughes: un accesso visionario unico nel suo genere, in cui la coscienza si spalanca su un vuoto senza nome. Vuoto che Dickinson non intende interpretare, tantomeno dominare razionalmente, ma decide di indagarlo grazie alla poesia. E in questo frangente resta fedele all’“un-naming” battezzato da Bloom, per cui l’essenza del contenuto poetico resta indicibile tramite gli strumenti della logica e avvicinabile soltanto per via analogica. La poeta riesce a esprime ciò che fugge, che non si lascia rappresentare oggettivamente, l’invisibile che condiziona il reale al pari della materia sensibile. Secondo Coccia ne “La vita delle forme. Filosofia del reincanto” (2024), per Dickinson la poesia è la forma suprema di esperienza e non si può fissare a un insieme di fogli, poiché si avvera nell’atto stesso del suo accadimento.

Verso l’alto, l’altissimo

Un punto di tensione, un nodo esistenziale è il rapporto con la trascendenza: i testi rivolti a Dio, al Giudizio Universale e al Paradiso non sono mai ortodossi, mai convenzionali. Hughes coglie qui la concezione di una “trinità personale”: Creazione, Visione, Morte. D’altronde Dickinson non rigetta la fede, ma la riposiziona al pari di un’ipotesi, di un pungolo continuo e persino sardonico. “Questa è la mia lettera al Mondo” in apertura è un esempio fulminante: l’aldilà è abitato da inquietudini familiari, e la bellezza diventa sorella della verità in una tomba priva di echi. La poeta, difatti, non interroga la morte per denudarla, per annullarla, ma per legittimare la meraviglia della vita in quanto enigma insolvibile.

Fonte: Il Sole 24 Ore