
Fabergé, una storia tortuosa fra uova degli zar, profumi e prodotti per pulire la casa
Immaginate dei prodotti per la pulizia della casa firmati Cartier o uno shampoo all’aloe vera con il logo di Boucheron. Quello che potrebbe essere un sogno per alcuni, sarebbe certamente un incubo per le maison, che vedrebbero associato il proprio patrimonio e la propria storia a categorie non esattamente esclusive. Eppure, è esattamente questo che accadde nella seconda metà del secolo scorso a Fabergé, il marchio di gioielli celebre per le preziosissime uova amate dagli zar, e che di recente è stato ceduto per 50 milioni di dollari dall’ultimo dei suoi numerosi proprietari, la compagnia mineraria Gemfields, a un fondo di venture capital statunitense, solo l’ultima puntata della sua storia, lunga, perlopiù gloriosa, a tratti triste e per certi versi bizzarra.
Non tutte le grandi maison di gioielli hanno avuto infatti una vicenda lineare e coerente: Cartier, Bulgari, Damiani, ma anche Chaumet e Van Cleef & Arpels sono restate spesso a lungo nelle mani della famiglia fondatrice – alcune ancora lo sono, come nel caso della maison di Valenza – per poi passare ai grandi gruppi del lusso come Lvmh, Richemont (che con gioielli e orologi ha costruito il cuore pulsante del suo portafoglio) e in misura minore Kering.
La storia di Fabergé è diversa, soprattutto perché al culmine del suo successo internazionale, quando persino le famiglie reali e imperiali europee si contendevano le sue creazioni, fu interrotta e per certi versi devastata dalla Rivoluzione bolscevica del 1917, che ne confiscò beni e attività. Finiva così una parabola ascendente che aveva portato alla gloria Peter Carl Fabergé, figlio del fondatore Gustav, a sua volta discendente dell’orafo Pierre, che si era trasferito dalla Germania nella provincia baltica di Livonia, ai tempi parte dell’impero russo, e poi aveva aperto la sua boutique nel 1842 al 12 di Bolshaya Morskaya nella sfarzosa San Pietroburgo. La famiglia Fabergé aveva il viaggio, lo spostamento nel dna, da quando l’originaria famiglia di ugonotti alla fine del Seicento fu costretta a lasciare la Francia, dopo la revoca dell’Editto di Nantes con cui Enrico IV aveva garantito libertà di culto ai protestanti.
A San Pietroburgo, fra il 1882 in cui Carl Fabergé prese in mano l’azienda del padre e il 1917 si stima che la maison produsse almeno 200mila fra creazioni orafe e gioielli. Con 500 dipendenti e negozi a Mosca, Odessa, Kiev e Londra, era fra le più grandi aziende russe. Torniamo alla Rivoluzione: per un destino beffardo, come i suoi avi, e dopo aver visto passare la gestione della sua azienda a un comitato di dipendenti, Carl Fabergé dovette infine cedere la proprietà allo stato e fuggire in Europa, dove morirà a Losanna nel 1924. Due dei suoi figli, riusciti a fuggire dalla Russia, rifondarono la maison a Parigi con Fabergé & Cie, che commerciava e restaurava oggetti realizzati da Fabergé, contrassegnandoli con il punzone Fabergé Paris per non confonderli con quelli che ancora si producevano in Russia.
È da questa confusione che per vie molto traverse si genera un altro ramo, e il capitolo più bizzarro, di Fabergé. Negli anni 20 un magnate del petrolio statunitense, Armand Hammer, acquista in Russia molti oggetti di Fabergé, fra cui alcune delle celebri uova imperiali. Nel 1937 un suo amico, Samuel Rubin, che possedeva in Spagna l’azienda di importazione di cosmetici Spanish Trading Company, fu costretto dalla Guerra Civile a chiudere i battenti. Fu Hammer a suggerirgli allora di fondare un nuovo marchio di cosmetici: perché non chiamarlo proprio Fabergé? Di “Fabergé Inc”, questo il nome della nuova società, i Fabergé espatriati non seppero nulla fino al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando ormai il marchio aveva avuto tempo di consolidarsi ed espandersi. Con un accordo legale che gli portò un rimborso di circa 300mila dollari di oggi, diedero a Rubin il consenso di usare il loro cognome solo per associarlo a una linea di profumi piuttosto lussuosa.
Fonte: Il Sole 24 Ore