
Fertilizzanti, dal digestato chance per tagliare le importazioni
L’Italia importa oltre il 70% dei fertilizzanti chimici. Eppure, aumentare l’uso in campo del digestato – sottoprodotto organico derivato dagli impianti nazionali di biogas e biometano – potrebbe soddisfare il fabbisogno di fertilizzante per l’intera produzione di mais nelle zone vulnerabili e per metà della produzione italiana. I dati emergono da una ricerca della Fondazione Farming For Future e dell’Invernizzi Agri Lab di Sda Bocconi School of Management.
Gli effetti
L’impatto sarebbe triplice: la trasformazione sostenibile del settore agricolo; lo sviluppo di un’economia più circolare; la riduzione della dipendenza dall’estero, anche da Paesi come la Russia. Dall’elaborazione dell’Agri Lab su dati Un Comtrade emerge che, nel 2024 la Russia è il secondo partner commerciale (12,44% delle importazioni), dopo l’Egitto e davanti all’Algeria, per tutti i fertilizzanti chimici e che dal 2018 è sempre stata ben presente nella top cinque degli esportatori– a eccezione della sesta posizione del 2020. Nel 2024 il giro d’affari con la Russia è stato di 131 milioni di euro, mentre il totale delle importazioni di fertilizzanti chimici ha superato il miliardo di euro.
Oltre i confini italiani
Ma non è una questione solo italiana: in Europa le importazioni di azoto di sintesi (urea) dalla Russia sono raddoppiate tra il 2020-21 e il 2022-23, e si stima che tocchino 1,5 miliardi di euro. Oggi la direttiva 91/676/Cee (direttiva Nitrati) limita le potenzialità del digestato, ma iniziano a esserci aperture. Spiega Diana Lenzi, presidente della Fondazione Farming for Future: «I limiti stringenti all’uso di fertilizzanti organici presenti nella direttiva erano nati per evitare l’inquinamento delle falde acquifere, ma oggi, dopo 25 anni, l’agricoltura si è molto evoluta in termini di prodotti e di tecnologie a disposizione. Allora non esistevano né gli impianti di biogas o biometano, né il digestato o le tecnologie per spanderlo nel terreno in modo ottimale. Oggi il digestato ha gli stessi imiti di rilascio del letame, anche se è un prodotto diverso». Lenzi spiega che la direzione generale dell’Ambiente (Dg Env) ha commissionato uno studio sullo stato dell’arte dei nuovi fertilizzanti organici, atteso in autunno, e aprirebbe a una loro regolamentazione. Anche perché «fra i pochi emendamenti nel pacchetto di proposte di modifiche della Pac approvati – continua Lenzi – era stato adottato il 133, che introduce un passaggio secondo cui la Commissione dovrà proporre in tempi rapidi un quadro giuridico e finanziario per aumentare l’uso del letame e del letame animale trasformato come alternativa ai fertilizzanti».
L’impatto del digestato
L’analisi di Fondazione Farming For Future e dell’Invernizzi Agri Lab parte dai dati forniti dal Consorzio Italiano del Biogas (Cib) sulla produzione di digestato in Italia nel 2023. I risultati dimostrano anche che, se la direttiva fosse aggiornata alle attuali conoscenze sull’uso del digestato, il ricalcolo degli adeguati apporti di azoto nel terreno permetterebbe di fertilizzare il 60% della produzione agricola totale. Ma i benefici non si fermano qui. «L’utilizzo prolungato di fertilizzanti chimici crea assuefazione nel terreno – spiega Vitaliano Fiorillo, direttore dell’Agri Lab – e il suo progressivo impoverimento, che porta a dover incrementare via via le quantità di fertilizzante. Lavorare con il digestato invece – continua Fiorillo – significa utilizzare un approccio continuativo negli anni, perché il profilo di assorbimento è più lento, però favorisce il ritorno della biodiversità nel suolo».
Un altro vantaggio è la diminuzione della carbon footprint delle aziende agricole, in gran parte determinata dall’uso di urea, prodotta con grandi quantità di energia in Paesi che usano fonti fossili. «Il digestato è l’opposto dal punto di vista ambientale, perché è il risultato dell’utilizzo di matrici organiche per produrre energia. Ogni volta che non utilizziamo 1 kg di urea risparmiamo 1,35 kg di CO2. Questo sottoprodotto chiude il cerchio all’interno dell’azienda agricola che – se ha un allevamento e un impianto di biogas o biometano – può addirittura diventare carbon negative».
Fonte: Il Sole 24 Ore