Gestire la resistenza al cambiamento ponendosi le domande giuste

Nel nostro lavoro aiutiamo le organizzazioni nella gestione del cambiamento dei comportamenti, nell’intraprendere sentieri di innovazione, nello sviluppo di capacità professionali. Uno dei rischi che corriamo è che noi per primi si caschi nella “trappola dell’impostore”: quello di temere di non essere in grado di portare valore nel nostro ruolo, per cui un fallimento è la conferma che “non dovrei essere qui”, e un successo in fondo è una botta di fortuna (ne parlavamo con Giulio Xhaet in un recente articolo sulla “sindrome dell’impostore” e ci riferivamo sia a noi consulenti che a noi tutti, ciascuno per il proprio ruolo).

Esiste anche una “trappola” specchio, sia per le organizzazioni che per gli individui. Ovviamente potrei scomodare il delirio di onnipotenza, cioè credere di poter fare quello che si vuole “senza alcun freno né coscienza”. Oppure l’effetto Dunning Kruger, per il quale meno so e più penso di sapere.Poi c’è un rischio molto più quotidiano e altrettanto insidioso, che spinge sia i singoli che le organizzazioni a non andare a cercare “aiuto” o a rifiutarlo quando viene proposto. È la trappola dell’esperienza: sono anni / decenni che mi occupo di, ne ho viste di ogni, i risultati arrivano e se non arrivano ci sono passato talmente tante volte che… chi può aiutarmi meglio di me? Semmai uno ancora più bravo ed esperto. Dal punto di vista di una organizzazione, soprattutto se di successo, chi meglio dell’organizzazione stessa è in grado di interpretare visione, missione, compiti eccetera? Morale: non c’è nessuno più bravo di me ad essere me stesso.

E invece, di cosa dovrebbero sapersi letteralmente pre-occupare, cioè occuparsi prima che sia tardi, sia le persone che le organizzazioni? Vediamolo in un paio di punti. Certo, nessuno meglio di me sa fare le mie cose a modo mio. Ma intanto il mondo cambia, i contesti evolvono, le sfide si fanno più complesse e inedite. È un discorso antico come il mondo, ma sempre valido perché è circolare: ciascuno di noi da “fuori” vede le cose che “andrebbero fatte”. Per farle, tocca entrare nelle questioni. Quando sei dentro, diventi sempre più bravo e performante su certi aspetti, e contemporaneamente sempre più “cieco” su altri. Motivo per cui la contaminazione, il ricambio di energie, comprese le proprie, è così importante in contesti che evolvono.

Quando otteniamo risultati il nostro cervello traccia dei solchi cognitivi, dei binari che sono sicuri e ci fanno andare più veloci, ma da cui poi non vogliamo deviare, visto che andiamo così veloci e sicuri. E da cui anche volendo fatichiamo a deviare. Non c’è cattiveria e malafede (o magari sì, ma quello è un altro articolo). È proprio che “non vediamo”. Allora una soluzione può essere cercare qualcuno di cui fidarsi. E poi fidarsi.

Più in generale possiamo parlare di “resistenza al cambiamento”. Se ne parla tanto ma è un tema su cui percepisco della retorica non sempre sana. Spesso la narrazione sembra essere: “ci sono quelli che non vorrebbero cambiare mai nulla e quelli invece che nel cambiamento si divertono sempre e comunque”. Bravi i secondi, vergogna ai primi. Esisteranno sia i primi che i secondi, persino le nostre preferenze comportamentali hanno delle componenti in tal senso. Però lo trovo semplicistico e sbrigativo.

Fonte: Il Sole 24 Ore